Pochi se ne sono accorti, ma quest’anno ricorre il trentesimo anniversario della “legge Galli” (l.36/1994), la legge che trasformò radicalmente il sistema di gestione dei servizi idrici in Italia. Il compleanno ci dà l’occasione per un bilancio di quella riforma, e insieme per riflettere sull’adeguatezza di quel modello a fronte delle sfide che il settore ha di fronte, in primis quelle derivanti dal cambiamento climatico. Lo abbiamo fatto in un approfondito studio svolto su incarico della DARA (Direzione Affari Regionali e Autonomie) della Presidenza del Consiglio dei Ministri, presto pubblico, del quale forniamo qui alcuni spunti.

Prima della riforma, il settore idrico era polverizzato in una miriade (si dice 15.000) di piccole gestioni, quasi sempre in economia, quando andava di lusso erano aziende municipalizzate o consortili. Gli investimenti li pagava lo stato, le tariffe erano tra le più basse del mondo e coprivano a stento i costi operativi, in molte parti d’Italia nemmeno quelli, data la morosità di massa. Complice la crisi delle finanze pubbliche, dagli anni 80 almeno gli investimenti erano precipitati riducendosi a valori prossimi allo zero. I livelli di servizio pessimi, soprattutto al Sud dove non era sempre garantita l’erogazione continua. La depurazione era largamente inadeguata. La rete era da ricostruire, mentre incalzavano le direttive europee: acque reflue, acque potabili, stato ecologico. Con la riforma si sarebbe arrivati a un centinaio scarso di gestioni intercomunali, in grado di finanziarsi tramite le tariffe, forzando i comuni a costituire enti collettivi all’interno degli “ambiti territoriali ottimali”.

Il modello “un ambito, una tariffa, un gestore” era funzionale a un sistema autosufficiente, laddove questo termine andava declinato in una pluralità di significati. Autosufficienza idrologica: l’unità del bacino idrografico minimizzava l’esigenza di trasferimenti da un bacino all’altro; autosufficienza industriale: raggiungimento di una dimensione minima efficiente tale da consentire il pieno sfruttamento delle economie di scala; autosufficienza finanziaria: un’unica tariffa doveva mediare i costi di fornitura del servizio, fatalmente influenzati dal numero e dalla densità della popolazione da servire, consentendo quindi gli incrementi necessari a finanziare gli investimenti senza incidere in modo troppo pesante sull’accessibilità economica per le famiglie.

Per almeno 15 anni, la riforma funzionò però solo sulla carta. Più che gli ingegneri, lavorarono gli avvocati, nel tentativo di organizzare le complesse architetture istituzionali e costruire i nuovi gestori, stretti tra la volontà locale di mantenere il controllo sulle aziende e il disegno politico nazionale di forzare la mano ai sindaci e accelerare l’industrializzazione tramite i “campioni nazionali” rappresentati dalle grandi imprese quotate.

Il referendum del 2011 rappresenta un vero spartiacque, e ciò ha del paradossale, se si pensa che chi lo istituì aveva in mente il ritorno ai modelli antichi – gestione diretta in regime di diritto pubblico, finanziamento in fiscalità generale, etc. Per una sorta di eterogenesi dei fini, l’esito fu invece l’opposto di quello desiderato.

In primo luogo perché l’abrogazione della norma che obbligava l’affidamento tramite gara determinò non già il ritorno alle gestioni in economia, quanto piuttosto la cristallizzazione dello status quo entro la cornice dell’acquis comunitario. Nella pax idrica che ne seguì, per almeno un decennio si smise di discutere dei modelli organizzativi (gara, affidamento in house, società mista), lasciando agli enti locali libertà di scelta, permettendo alle aziende di concentrare l’attenzione sulle strategie di sviluppo.

In secondo luogo perché il legislatore approfittò della circostanza per ovviare a quella che era stata fino a quel momento la principale debolezza del settore, ossia la debolezza della regolazione, fino ad allora affidata al contratto di servizio. Con il passaggio delle consegne ad ARERA, la musica cambia decisamente in meglio. Gli investimenti riprendono, portandosi in pochi anni da quasi niente (10-15 €/abitante/anno) a oltre 60; ma più ancora che il valore, conta la qualità: gli investimenti cominciano ad essere guidati da una strategia fondata sulle priorità e su una logica di risk-management. Per la prima volta dopo un secolo, il settore idrico dispone di una misura chiara della propria performance tecnica e contrattuale, e gli operatori sono stimolati a investire laddove gli indicatori risultano meno soddisfacenti, in una logica orientata al miglioramento continuo. La credibilità della politica tariffaria apre alle aziende idriche la disponibilità del mercato finanziario, fino ad allora trattenuto dall’opacità delle regole e dall’imprevedibilità della loro applicazione. Se fino al 2011 ad investire erano quasi solo le multiutility quotate (forti del business energetico), ora anche le monoutility in-house potevano offrire agli investitori adeguate garanzie. L’innovazione rappresentata dal FoNI (Fondo nuovi investimenti) permette di raccogliere tramite le tariffe un “contributo straordinario” pagato dagli utenti che si sostituisce al finanziamento a carico del mercato.

Sebbene lentamente, le criticità vengono affrontate e risolte; molto resta da fare, ovviamente, ma il settore idrico richiede tempi lunghi; l’importante è che la macchina si sia messa in moto, e proceda. Il nostro studio conferma con i dati il graduale ma continuo miglioramento degli indicatori di qualità.

Ora si tratta di capitalizzare i risultati raggiunti e rilanciare, a fronte delle sfide che il settore ha di fronte. Dallo studio emergono alcune indicazioni.

Serve innanzitutto una strategia finanziaria innovativa. Si è compreso che la tariffa non può finanziare tutto – almeno non in un settore in cui, nonostante l’accorpamento delle gestioni negli ATO, permangono differenze significative tra i territori. Il FoNI ha consentito a ciascuna gestione di creare un flusso di autofinanziamento, ma questo rimane confinato all’interno di ognuna e non può essere trasferito da una gestione all’altra. La finanza pubblica è finora intervenuta con l’antiquato meccanismo del “contributo a fondo perduto”, cui non fa eccezione nemmeno il PNRR; le esperienze di altri paesi suggeriscono invece l’utilità di pensare a formule intermedie, come le banche di investimento speciale, i fondi rotativi e le tasse di scopo, che possono attivare circuiti finanziari con costi molto più bassi di quelli di mercato, senza gravare sulla fiscalità generale.

In secondo luogo, va promossa l’integrazione infrastrutturale – interconnessione delle reti, distrettualizzazione, digitalizzazione – che spinge verso dimensioni maggiori, che tuttavia non vanno cercate allargando le dimensioni degli ATO, ma semmai favorendo le sinergie tra gestori e permettendo la realizzazione di iniziative condivise tra più operatori con l’eventuale partecipazione di holding di livello superiore.

In terzo luogo, è necessario avviare una “politica della domanda”, non più concepita come fabbisogno da soddisfare a prescindere, favorendo l’efficientamento idrico – da intendersi non solo come semplice “risparmio”, ma come modello ispirato a una logica circolare, favorendo il riuso delle acque depurate, i sistemi duali, le sinergie orizzontali tra sistemi di gestione.

In quarto luogo, occorre estendere la logica della gestione industriale finanziariamente autosufficiente anche al tema delle acque meteoriche – grandi assenti nel disegno del “servizio idrico integrato”, ma il cui governo è sempre più fondamentale per garantire la qualità della vita negli spazi urbani.

Occorre, infine, rafforzare la “gamba locale” della regolazione, che non può più fare riferimento agli ATO, ma deve costituirsi su base regionale o addirittura interregionale. Il modello adottato da alcune Regioni (come l’Emilia-Romagna e la Toscana) sembra il più promettente, poiché favorisce il consolidarsi delle competenze regolatorie e programmatorie, senza necessariamente richiedere di modificare la struttura degli affidamenti e le dimensioni territoriali delle aree servite da ciascun operatore.

Va evitata, a nostro avviso, la tentazione di nuove riforme “totalizzanti”, che rischiano, come già avvenuto nel primo decennio del secolo, di distogliere l’attenzione dalle cose da fare riaprendo la discussione sui modelli gestionali o aprendo nuovi fronti di conflitto con gli enti locali. Il modello "un ambito, una tariffa, un gestore" può essere utilmente integrato e completato, senza stravolgerlo.