Non c’è bene più globale della libertà di navigazione. Eppure, la crisi nel Mar Rosso sta mettendo a nudo la grande frammentazione dell’ordine mondiale. Dopo tre mesi di attacchi degli Houthi dello Yemen, a metà tra pirateria e terrorismo marittimo, contro le navi commerciali – legate a Israele e non - in transito fra Mar Rosso meridionale e Bab el-Mandeb, non c’è un’iniziativa multilaterale condivisa e, neppure, una posizione politica comune da cui partire per decidere ‘che fare‘. Intanto, i missili e i droni del movimento armato yemenita condizionano il commercio e l’economia internazionale.

Fra “Occidente” e “Oriente”, “G7” e “Sud Globale”, l’unico paese che non ha al momento interesse a un Mar Rosso sicuro è l’Iran, che arma e addestra gli Houthi (o Ansar Allah, “partigiani di Dio”, come si fanno chiamare dal 2011). Mentre le implicazioni del raid di Stati Uniti e Gran Bretagna contro le infrastrutture militari Houthi (11 gennaio 2024) devono ancora essere valutate, può essere utile focalizzare le radici della crisi e le reazioni degli attori regionali e internazionali.

La guerra civile in Yemen dura da quasi nove anni. Nel gennaio 2015 il colpo di stato degli Houthi (sciiti zaiditi del nord) a Sana’a, ha spinto la confinante Arabia Saudita a intervenire alla guida di una coalizione militare araba. I sauditi puntavano alla vittoria-lampo, gli Houthi –che da quel momento hanno ricevuto in maniera sistematica aiuto militare dall’Iran- hanno impedito i piani di Riyadh, investendo nella guerra di logoramento. E hanno iniziato, dal 2016, a colpire con frequenza il regno saudita: obiettivi economici ed energetici anche costieri, con missili, droni, imbarcazioni-drone, mine galleggianti. L’Arabia Saudita ha così deciso, dal 2022, di cambiare strategia, aprendo un negoziato diretto con gli Houthi per il cessate il fuoco. È questo il contesto in cui questo gruppo è militarmente cresciuto, trasformandosi da insorti dediti alla guerriglia locale ad attori regionali filoiraniani capaci di attacchi sofisticati, anche contro gli Emirati Arabi Uniti. Prendendosi poi la ribalta dopo l’offensiva di Israele a Gaza seguita al 7 ottobre.

Per le monarchie del Golfo, gli Houthi rappresentano da anni una minaccia di sicurezza. Per troppo tempo, europei e statunitensi hanno invece guardato ad essi come ad attori locali, considerando lo Yemen ‘lontano’ e ’marginale‘. Inoltre, raccontare lo Yemen –come molti hanno fatto- mediante le fuorvianti semplificazioni della guerra per procura e degli Houthi come proxy actors di Teheran ha portato fuori strada. Gli houthi sono parte del cosiddetto asse della resistenza filo-Iran ma sono assai autonomi e giocano innanzitutto per i loro obiettivi. L’apertura del fronte del Mar Rosso soddisfa i calcoli regionali di Teheran, ma consente loro  di: rafforzare sostegno interno e reclutamento; spostare l’attenzione dai fallimenti economico-sociali del loro “governo” autoritario; ergersi a capofila della popolare causa palestinese, antisraeliana e ora anche antiamericana; negoziare con l’Arabia Saudita da una posizione di ulteriore forza; elevare il loro status nella costellazione regionale filo-Teheran. Ecco perché è alquanto improbabile che il raid di statunitensi e britannici spinga gli Houthi a fermarsi qui. Dopo essersi presentati come coloro che ‘resistevano‘ all’Arabia Saudita, ora intendono fare lo stesso con gli Stati Uniti.  Ed essi si muovono già in un contesto di guerra; dunque, hanno molto meno da perdere degli Hezbollah in Libano o delle Forze di Mobilitazione Popolare in Iraq in caso di escalation.

Neppure davanti alla crisi del commercio globale nel Mar Rosso il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite si è mostrato unito. Il 10 gennaio 2024, quindi un giorno prima del raid anglo-americano in Yemen, il Consiglio di sicurezza ha sì approvato una risoluzione (la 2722), ma grazie all’astensione di Russia e Cina. Certo, il testo era stato presentato dagli Stati Uniti, ma invitava gli Houthi a cessare immediatamente gli attacchi e rilasciare il Galaxy Leader, la nave cargo sequestrata con il suo equipaggio dal 19 novembre 2023. In sede di dichiarazioni di voto, la Russia ha accusato gli Stati Uniti di voler utilizzare la risoluzione per legittimare le azioni della Prosperity Guardian,  la missione navale difensiva a guida USA lanciata a metà dicembre. La Cina ha chiesto agli Houthi di fermare gli attacchi alla navigazione, ma ha tacciato la risoluzione poi approvata di ambiguità, sottolineando che il testo avrebbe potuto provocare nuove escalation. A livello regionale, l’India sta rafforzando la presenza navale nel Mar Arabico, anche in chiave antipirateria, ma non ha aderito a Prosperity Guardian.

Le divisioni sul “che fare” sono presto emerse anche nell’Unione Europea. Francia, Italia e Spagna si sono subito smarcate da Prosperity Guardian, preferendo continuare ad agire sotto comando nazionale (Parigi), con le Forze navali europee della missione EU NAVFOR Atalanta (Roma) o non partecipare (Madrid). Le ragioni principali sono tre: la volontà di procedere parallelamente agli Stati Uniti, i timori per le possibili ritorsioni contro navi commerciali, le risorse militari e i costi economici della partecipazione. Mentre Bruxelles discute della portata geografica e del mandato di un’eventuale nuova missione che si affianchi a Prosperity Guardian, è importante sottolineare che la pirateria è solo uno dei volti della crisi marittima innescata dagli Houthi. Pertanto, la nuova missione, più che ad Atalanta, potrebbe assomigliare a Emasoh-Agenor (organizzata da alcuni paesi europei e basata ad Abu Dhabi), attiva dal 2019 dopo gli attacchi di matrice iraniana alle petroliere tra Hormuz e Golfo dell’Oman. Intanto, cresce il ricorso alla sicurezza privata da parte di molte compagnie marittime. Per Washington, gli europei ’in ordine sparso’ non sono certo una novità. A preoccupare di più gli americani dovrebbero essere i distinguo tra i partner del Golfo. Le monarchie non partecipano ufficialmente a Prosperity Guardian (tranne il Bahrein, sede della V Flotta USA) per ridurre il rischio di ritorsioni e, soprattutto, hanno reagito con toni assai diversi al raid anglo-americano. L’Arabia Saudita ha espresso grande preoccupazione, anche per l’attacco USA, mentre gli Emirati Arabi hanno messo l’accento sulla “minaccia inaccettabile”  proveniente dagli Houthi. Il Qatar aveva ammonito Washington contro l’uso della forza mentre l’Oman, che sta mediando in Yemen, ha apertamente condannato il bombardamento mirato anglo-americano. Posizionamenti che fotografano politiche estere differenti, nonostante la preoccupazione condivisa per la sicurezza marittima, oggi fondamentale per le “Vision” e i progetti post-oil.

Di fronte alla minaccia degli Houthi, la mancanza di un’iniziativa multilaterale nel Mar Rosso si fa notare proprio per la centralità che questa via marittima ha (ri)conquistato. Nel giro di pochi anni il Mar Rosso, naturale cerniera fra Oceano Indiano e Mar Mediterraneo, è diventato conteso. La spirale di polarizzazione internazionale, con l’invasione russa dell’Ucraina e la rivalità sistemica fra Stati Uniti e Cina, ha accelerato l’erosione dell’influenza occidentale –britannica prima e statunitense poi- fin qui predominante nel Mar Rosso. Le potenze mediorientali e internazionali hanno così fatto a gara per installare basi militari (per esempio a Gibuti), ottenere concessioni portuali e costruire infrastrutture marittime e aeree (Corno d’Africa e Yemen), controllare isole e città costiere (Yemen). Avvantaggiandosi anche della disgregazione istituzionale di alcuni stati, come Yemen, Somalia e Sudan.

La competizione si è trasformata in militarizzazione. Ma la moltiplicazione degli interessi militari non ha costruito sicurezza anzi, è andata di pari passo con la crescita della conflittualità. Non c’è quadrante al mondo più del Mar Rosso in cui la sicurezza marittima sia un bene di tutti: qui passano energia e grano, metalli e manufatti. Proprio in questo snodo, invece, la grande frammentazione globale allontana soluzioni condivise. E intanto, dalle coste del “periferico Yemen”, gli Houthi alzano il tiro, e poi ancora.