La ventottesima Conferenza delle Parti (COP 28) ha segnato alcuni importanti progressi, riuscendo ad allocare risorse per le perdite e i danni legati ai cambiamenti climatici, registrando l’impegno a incrementare l’uso di fonti alternative come l’energia nucleare e garantendo sostegno alle tecnologie per l’abbattimento dei gas serra. Soprattutto, è la prima volta che un vertice COP sottolinea il nesso tra  climate change e la salute pubblica, con i rappresentanti governativi di oltre cento paesi ad impegnarsi per la riduzione dell’inquinamento ambientale e di quello domestico, causa diretta di circa sette milioni di decessi all’anno (da decenni).

Ma che le dichiarazioni contenute nel documento finale del vertice possano portare a risultati significativi e duraturi rimane tuttora un tema aperto. Un aspetto sicuramente positivo è che agli stati partecipanti sia stato raccomandato di estendere le cosiddette Nationally Determined Contributions a tutte le attività economiche (e non solo a certi settori). Tuttavia, andrebbe sottolineato come tali misure (a) abbiano orizzonti temporali lontani e successivi alla scadenza del mandato elettorale dell’amministrazione che le propone e (b) siano soggette alla variabilità delle scelte politiche nel corso degli anni. Inoltre, gli stati sono sì tenuti ad indicare i programmi per raggiungere gli obiettivi ambientali, ma tali misure non sono vincolanti e, anche se lo fossero, mancherebbe comunque un organismo super partes, a livello internazionale, in grado di renderle esecutive e soprattutto cogenti.

Le conseguenze geopolitiche di COP28 appaiono dunque abbastanza limitate. Nonostante l’enfasi sull’impatto dei combustibili fossili, infatti, a livello globale (a) l’attività estrattiva di petrolio è in aumento; (b) il consumo di gas naturale -le cui emissioni fuggitive di metano hanno un global warming potential molto più elevato di quello della CO2 - manterrà elevati tassi di crescita per i prossimi quindici anni;  (c) gas, carbone e petrolio rappresentano ancora, a quasi trent’anni dal primo vertice COP, l’83% delle fonti di energia. Così come si fa spesso riferimento ad un presunto allineamento sulle tematiche del climate change tra i paesi in via di sviluppo (citando ad esempio le nazioni insulari) e il mondo industrializzato, dimenticando che il cosiddetto Global South annovera paesi (ad esempio India e Brasile, per non parlare dei Brics+) quantomeno recalcitranti sull’opportunità di rinunciare all’utilizzo delle risorse fossili. La stessa Germania, pur in presenza di un partito di ispirazione ecologista al governo, ha recentemente ripreso ad utilizzare carbone e confermato il programma di chiusura delle centrali nucleari.

A fronte di questi dati sarebbe allora importante mantenere un approccio pragmatico. La maggior parte dei paesi produttori di combustibili fossili ha sicuramente intrapreso un percorso di diversificazione della propria economia, ma difficilmente rinuncerà a una delle principali fonti di ricchezza, soprattutto a fronte di una domanda globale che non accenna a diminuire. Inoltre, è difficile che l’Occidente (soprattutto l’Europa), dopo aver consumato per decenni le risorse naturali di paesi terzi possa convincerli, attraverso pressioni politico/mediatiche come i vertici COP, a ridurre i propri consumi in nome di una presunta causa comune.

Piuttosto, mentre da un lato la riduzione delle attività estrattive di combustibili fossili (a livello globale) deve ancora materializzarsi, dall’altro si sta già registrando un forte aumento delle attività estrattive di materie prime per la produzione di veicoli elettrici e di componenti elettroniche per l’energia fotovoltaica/eolica. Queste attività avranno importanti ripercussioni in termini di sfruttamento dell’ambiente naturale e di consumo energetico ma, soprattutto, dal punto di vista geopolitico. Contrariamente a quanto si legge sui mainstream media, però, le principali riserve di elementi fondamentali per la transizione energetica come (ad esempio il litio) sono controllate solo in minima parte dalla Cina (1,5 mln di tonnellate), mentre Cile, Australia, Argentina, USA e Canada ne controllano complessivamente 20,7. Lo stesso dicasi per manganese, nickel e cobalto, presenti sia in Cina sia, in abbondanza, in paesi filo-occidentali. Semmai, le reali questioni geopolitiche sollevate da questo tema sono legate a: (a) la fase di lavorazione di tali minerali, presidiata al 70% da Pechino (per litio e cobalto); (b) il programma di ingenti sussidi pubblici che sia l’UE che gli USA hanno dovuto avviare per rimpatriare o riattivare specifiche fasi della catena produttiva; (c) il tentativo dell’Occidente di recuperare le competenze estrattive e manufatturiere perse con la delocalizzazione degli ultimi decenni.

Per quanto riguarda il tema della salute, poi, se da un lato la COP28 ha forse segnato l’inizio di una maggiore presa di coscienza del legame tra cambiamento climatico e benessere collettivo, dall’altro la profonda trasformazione di cui necessiterebbe l’intera filiera alimentare appare ancora lontana, essendo il settore ancora deregolamentato e in grado di (a) produrre cibi poco nutrienti se non addirittura nocivi; (b) influenzare le attività agricole al punto che solo il 3,8% delle terre coltivabili è dedicato alla frutta e il 3,3% alla verdura. Ben venga, dunque, l’introduzione di un momento di riflessione collettiva nei vertici COP attraverso il cosiddetto global stocktake. Ma è importante che queste riflessioni non si limitino al mondo delle istituzioni pubbliche o del settore economico e si estendano invece anche alle nostre scelte quotidiane (stile di vita, alimentazione, mobilità), in grado di svolgere un ruolo cruciale per la revisione dei modelli di produzione e, quindi, per il raggiungimento degli obiettivi di sostenibilità del nostro pianeta.

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