Doveva essere la COP dell’uscita dalle fonti fossili. È stata la COP dei compromessi. Ma per un paese come la Cina, il maggiore inquinatore al mondo, non poteva essere diversamente. Pechino ha da tempo impugnato le redini della corsa alla transizione energetica, ma rimane pragmaticamente ancorata a un sistema che sa non poter ancora stravolgere. Presente per autotutelarsi, ma anche per non perdere la presa sulle ambizioni di rappresentante del Sud Globale, la Repubblica Popolare rappresenta meglio di tutti le complessità del mondo “oltre” l’Occidente.

Qual è stato l’approccio della Cina alla Conferenza delle parti conclusasi lo scorso 13 dicembre? Lo spiegano bene le parole del neo eletto rappresentante per il clima Liu Zhenmin, che da ora in poi sostituisce Xie Zhenhua dopo sedici anni alla guida della diplomazia climatica cinese. "Questo [accordo, ndr.] non è perfetto. Rimangono ancora alcuni problemi", ha detto Liu, aggiungendo che la delegazione cinese stava ancora rivedendo il testo.

Altrettanto indicativa l’assenza, in continuazione con i summit per il clima passati, del presidente Xi Jinping. Non è indifferente che Xi, che ricopre da prassi anche l’incarico di Segretario del Partito Comunista Cinese, scelga di partecipare ai summit G20 o BRICS ma non alla COP. Che è un evento apparentemente minoritario rispetto a quelli menzionati, ma sempre più rilevante nel contesto di quanto sta accadendo anche in Cina, tra fenomeni meteo estremi e dilemmi energetici. Se la COP serve soprattutto a lanciare dei messaggi politici affinché le idee si trasformino in azioni, pur senza vincoli legali, la Cina sa quali sono i limiti e le opportunità di questa piattaforma.

La firma di Pechino manca da uno degli accordi chiave di questa edizione, ovvero l’impegno a triplicare la capacità rinnovabile e a raddoppiare l’efficienza energetica entro il 2030. Il che può risultare anomalo, in un paese che, stando ai dati odierni sugli impianti in costruzione, raggiungerà il target di 1.200 GW di nuova capacità da rinnovabili per il 2030 già entro il prossimo anno. Un’evidenza che è al tempo stesso la giustificazione dell’assenza della Repubblica Popolare dall’accordo. Sebbene il mercato energetico del paese dipenda ancora al 70% dal carbone, la Cina rimane il primo paese al mondo per produzione da rinnovabili. Secondi gli Stati Uniti, la cui capacità di produzione è, però, tre volte inferiore.

Un discorso simile vale per l’efficienza energetica. Qui la Cina è consapevole che potrebbe fare una differenza sostanziale nella strategia di contenimento del cambiamento climatico, ma non può sacrificare per questo la sua economia. Nonostante la rapida evoluzione di settori più avanzati quali servizi e high tech, infatti, l’economia della Repubblica Popolare si affida ancora in buona parte a settori ad alta intensità energetica come l’industria pesante. Ridurre l’intensità energetica del 4% in un periodo di definitivo rallentamento del “sogno cinese” è dunque un’ipotesi che i leader non desiderano considerare. Anche se, per assurdo, Xi Jinping è uno dei pochi Capi di Stato che oggi può vantare di aver già compiuto una riduzione dell’intensità energetica del 4% per cinque anni consecutivi, come suggeriscono le stime IEA.

Da qui l’appello alla comunità dei paesi in via di sviluppo che, per quanto eterogenea, rappresenta una chiave retorica potente anche per un paese dai dati impressionanti come la Cina. Pechino ha convalidato il suo contributo al Fondo per i paesi meno sviluppati (Least Developed Countries Fund) e al Fondo speciale per il cambiamento climatico (Special Climate Change Fund), ma tiene a precisare che le azioni per contrastare la crisi climatica avranno un impatto drammatico quanto i costi per contenere le conseguenze dei fenomeni estremi.

“Ho parlato con un ministro di un paese esportatore di petrolio”, ha detto l’ex zar per il clima Xie Zhenhua durante una delle sue ultime conferenze stampa alla COP28. “Il ministro mi ha detto che l’80-90% delle entrate fiscali derivano da petrolio e gas naturale. Se il petrolio e il gas naturale vengono eliminati, come può uno Stato come questo sopravvivere e svilupparsi? Ogni paese avrà le sue difficoltà”.

Quella che la Cina ha adottato alla COP28 è un’ambiguità strategica che non rappresenta una novità per la leadership cinese nel contesto di altri appuntamenti della diplomazia internazionale. L’accordo sulle rinnovabili, per esempio, viene pienamente sostenuto dalla Repubblica Popolare, che non ha posto veti o insistito affinché venissero apportate delle modifiche. Pechino non nega il cambiamento climatico e, anzi, la sua industria sta vivendo un nuovo Rinascimento grazie agli investimenti passati nel comparto eolico, fotovoltaico e dell’automotive elettrico. Ma l’imperativo dell’eccezionalismo rimane: la Cina non è gli Usa, né l’Unione Europea. La transizione energetica seguirà le linee generali della comunità internazionale, ma adattandole alle sue “caratteristiche nazionali”.

Non è ancora chiaro se l’ambiguità cinese sia un tentativo di prendere tempo in un momento particolarmente pressante per la sua economia dovuto a una ripresa post-pandemica inferiore alle aspettative e a un mercato immobiliare a continuo rischio default. Senz’altro la Cina concorda con la versione più morbida, e approvata nella bozza finale, del “transitioning away” contro un più perentorio “phase out”, date le difficoltà a rimpiazzare il carbone con altre fonti meno inquinanti. Anche a suon di nuovi impianti nucleari, di cui uno di quarta generazione annunciato a inizio dicembre, la strada verso un’energia pulita è ancora in salita.