Il fallimento di Silicon Valley Bank negli USA ha generato diverse ripercussioni all’interno dei mercati finanziari, coinvolgendo anche alcuni segmenti del mercato energetico. La banca, caratterizzata da un elevato grado di concentrazione dei depositi da parte di venture capitalists,  ha investito le risorse finanziarie comprando titoli obbligazionari (treasuries) e mortgage backed securities a medio-lungo termine in un momento in cui i tassi di interesse ed i rendimenti erano molto bassi. Il cospicuo rialzo dei tassi di interesse, attuato in un breve arco temporale da Federal Reserve, ha causato una perdita di valore del portafoglio titoli detenuto per esigenze di investimento (held to maturity), generando una serie di effetti a catena: un cospicuo ritiro di depositi da parte dei venture capitalists, che ha determinato la vendita di tali titoli per far fronte ai deflussi di cassa e, di conseguenza, la trasformazione di un rischio di liquidità in un rischio di solvibilità; poi, il fallimento della banca, l’assicurazione dei depositi, l’effetto contagio, che ha riguardato prima le banche regionali americane e poi Credit Suisse, i cui principali problemi erano legati al modello di business e, certamente, non alla liquidità.

Anche qui, infatti, il massiccio ritiro dei depositi ha generato il ‘concordato’ processo di acquisizione di UBS. Infine, il capitolo Deutsche Bank, relativo allo ‘spike’ dei credit default swaps di una banca che, a differenza delle precedenti, godeva di una relativa buona salute in un contesto compromesso.

Ovviamente, questa catena di eventi ha generato un periodo di instabilità all’interno dei mercati finanziari e di cosiddetto ‘risk off’, ovvero vendita di attività rischiose e contestuale acquisto di attività prive di rischio (si vedano i titoli obbligazionari a lunga scadenza, i cui rendimenti in poco più di due settimane sono crollati in entrambe le sponde dell’Oceano, oppure ora).

Le dinamiche di queste instabilità finanziare sono piuttosto chiare; quali sono, però, gli effetti sul mercato energetico e, in particolare, sulle due principali materie prime, gas naturale e petrolio? Con riferimento al gas naturale, possiamo affermare che l’impatto è stato insignificante. In particolare, il contratto americano Henry Hub, anche questa volta, ha mantenuto la sua natura di ‘zero beta asset’, tipica di un mercato ancora locale, in cui le esportazioni in termini di gas naturale liquefatto (GNL) rappresentano circa il 13% del totale dell’offerta (di poco superiori a 13 miliardi di piedi cubici); fino a quando la percentuale di esportazioni è inferiore al 20-25% del totale dell’offerta, le dinamiche macroeconomiche tendono ad influenzare in modo molto limitato tale mercato. L’impatto diverrebbe significativo solo se la crisi bancaria dovesse essere così intensa da portare ad una pesante recessione economica e, conseguentemente, ad una riduzione della domanda di gas e ad un contestuale crollo della produzione industriale, con effetti negativi sulle quotazioni: tutto ciò, per ora, non traspare dai dati. Per il momento, il mese di marzo è stato segnato da un ulteriore aumento della produzione (Lower 48 production), una ridotta domanda di GNL, dovuta alla manutenzione di alcuni hub come Sabine Pass, una riduzione di domanda residenziale commerciale rispetto alle previsioni di fine febbraio (heating degrees), che ha portato il primo contratto ai livelli di circa 2 doll/MBTU. L’elevato livello di stoccaggi e le proiezioni degli stessi a fine novembre hanno contribuito al calo delle quotazioni: ne è testimonianza la curva forward, caratterizzata da elevati livelli di contango per poter contrastare un eccesso di offerta, già presente prima della sopra menzionata crisi bancaria. Lo stesso discorso vale per il TTF europeo, che è rimasto nel range 40-45 €/MWh.

L’analisi è completamente differente per il mercato del petrolio, tipicamente influenzato dalla variazione di scenari macroeconomici e certamente impattato sia nelle quotazioni del primo contratto, sia della curva forward, sia nella futura bilancia Domanda/Offerta (Supply/Demand Balance) dei due principali benchmark WTI e Brent.

Guardando al Brent, il principale contratto di riferimento, si può notare che vi è stato un calo di circa10 doll/bbl durante il periodo in cui si è manifestata la crisi bancaria e una riduzione della backwardation tipica del medesimo contratto, al netto delle già note problematiche di offerta.

Andando nel dettaglio delle dinamiche, è da evidenziare come il Brent sia stato impattato dal risk off trade, con effetti che potrebbero riguardare anche le dinamiche di domanda futura. Analizzando gli interlinkages tra stabilità bancaria e mercato oil si può avere una prima overview dei possibili scenari futuri, sebbene gli effetti specifici potrebbero essere più o meno intensi a seconda delle diverse variabili considerate. In particolare, la crisi potrebbe tradursi in una riduzione dell’offerta di credito da parte di banche regionali americane o, eventualmente, anche di piccole banche europee, che agiscono al fine di migliorare i coefficienti di liquidità o di operare in ottica prudenziale; la riduzione d’offerta comporterebbe un aumento dei tassi di interesse sui prestiti. Di conseguenza, il settore petrolifero andrebbe incontro ad un aumento dei costi del capitale di debito legato soprattutto ai finanziamenti a lungo termine.

Tale evidenza potrebbe dar luogo a due scenari con impatti differenti sulla supply/demand balance. Da un lato, infatti, potrebbe esserci una riduzione dell’offerta di petrolio, causata dagli eventuali ritardi e/o interruzioni delle infrastrutture a cui le società andrebbero incontro in caso di mancanza di finanziamenti e dagli aumenti dei costi; dall’altro, si potrebbe verificare una riduzione della domanda aggregata con impatti sulla crescita economica e sulla domanda di petrolio futura, in un periodo, tra l’altro, in cui la Cina si stava riaffacciando sul mercato. Questa situazione, infatti, potrebbe essere paragonata ad un rialzo marginale dei tassi di interesse da parte delle Banche Centrali, con effetti di contrazione sulla crescita economica globale.

In risposta, seguendo in parte questa logica e spinta da considerazioni geopolitiche, durante il primo weekend di aprile l’OPEC plus ha tagliato la produzione di oltre 1 milione di barili di petrolio al giorno, con Arabia Saudita e Russia leaders nei tagli volontari. Questa mossa ha consentito un riapprezzamento dei due principali contratti, Brent e WTI, che hanno raggiunto i livelli pre-crisi bancaria, e l’irripidimento della struttura in backwardation del Brent, che, in caso di forte domanda nella driving season estiva, potrebbe ritrovarsi in una situazione di under-supply.