La decisione, a livello comunitario, di sospendere a partire dal 2035 la vendita di auto a diesel e benzina ha sollevato un acceso dibattito sulla sua convenienza tanto per l’ambiente quanto per l’economia europea, e italiana. Delle implicazioni e dei costi di questa scelta ne abbiamo parlato con il Prof. Romano Prodi.

Professore, prima di parlare della decisione della Commissione e del Parlamento europeo, di bloccare la vendita di motori endotermici dal 2035, merita fare un cenno agli strumenti necessari per contrastare il cambiamento climatico. Cosa pensa in merito?

La custodia del pianeta è compito e dovere primario di tutta la società umana, così come unanime è la paura per le conseguenze del riscaldamento globale. Di fatto, i mezzi per combatterlo sono largamente condivisi, ma sui relativi modi di implementazione le divergenze sono state e continuano ad essere profonde. Infatti, le risorse finanziarie necessarie a combattere i cambiamenti climatici sono assai superiori a quelle che si pensava. Detto ciò, i risultati positivi possono essere raggiunti, come dimostrato dall’accordo siglato all’ultimo minuto durante l’ultima COP27 in Egitto. Occorre però una maggiore concretezza e capacità di sintesi diplomatica. Basterebbe osservare e confrontare la propensione dell’UE ad agire sul tema e confrontarla con quella di altri paesi come gli Stati Uniti e la Cina.

Sono d’accordo che il nostro continente si ponga, come è sua tradizione, gli obiettivi più ambiziosi riguardo al risanamento del Pianeta. Lo ha fatto già all’inizio del secolo ai tempi del Protocollo di Kyoto. In qualità di Presidente della Commissione Europea, feci il giro del mondo per ottenere la firma di questo protocollo da un numero di Paesi necessario a rendere vincolanti gli impegni in esso contenuti, nonostante la durissima opposizione di Washington e di Pechino.

E l’UE lo ha fatto anche in seguito, ripetutamente, fino all’approvazione del Green Deal e del Fit for 55 in cui si pone il traguardo di ridurre le emissioni del 55% entro il 2030 e di arrivare alla “neutralità carbonica”, cioè di non contribuire più all’aumento delle emissioni di gas serra, in un numero di anni minore rispetto agli altri paesi. E lo ha ribadito, a seguito dell’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, nel REPowerEU.

Tuttavia, per il raggiungimento di quanto ci si propone, bisogna costruire una struttura scientifica e mettere in atto una politica industriale in grado di rendere possibile questo obiettivo. Non possiamo porre sulle spalle delle nostre imprese pesi che esse non sono certamente in grado di sopportare, se i due giganti con i quali siamo in concorrenza si pongono obiettivi che implicano costi infinitamente inferiori ai nostri.

Non possiamo essere i leader del virtuoso e necessario processo di decarbonizzazione della nostra economia solo con decreti che proibiscono l’uso di strumenti inquinanti (siano essi dedicati al trasporto o al riscaldamento), senza una concreta strategia che sostituisca quello che da noi viene proibito e che da altri continua ad essere prodotto a costi infinitamente inferiori.

Sia chiaro che noi europei dobbiamo continuare a essere i leader del risanamento del Pianeta: bisogna però rendere quest’obiettivo concretamente raggiungibile.

Passiamo ad analizzare la recente decisione di vietare la vendita di auto diesel e benzina a partire dal 2035. È una scelta conveniente per il pianeta e per l’economia europea?

Ci sono sostanziali dubbi riguardo al fatto che questa politica sia la più conveniente per affrontare il degrado ambientale e per diverse ragioni. Innanzitutto, le auto elettriche, principale alternativa alle vetture a motore endotermico, richiedono una quantità e una qualità di materie prime critiche necessarie a produrre le batterie per nulla trascurabile, per non parlare dell’elevato costo della rottamazione delle batterie stesse. Da una parte, il tema pone nuovamente al centro della questione la profonda connessione tra politica industriale ed energetica, e come le due non possano essere in alcun modo separate se si vuole rimanere al passo con l’innovazione tecnologica e allo stesso tempo affrontare le sfide della sovranità industriale europea, di fronte alle sfide cinesi e americane.

Dall’altra, il dibattito riguardante le auto elettriche deve tener conto di due sostanziali aspetti. In primo luogo del mix di fonti con cui è prodotta l’energia elettrica. In secondo luogo, dell’energia necessaria per muovere il loro peso, assai maggiore di quello di un tradizionale motore a combustione interna. Se a questo si somma il costo delle infrastrutture necessarie per la ricarica delle batterie, l’inquinamento provocato dalla produzione dell’energia elettrica (solo in parte generata da fonti rinnovabili) e, anche se in via di progressiva soluzione, la limitata autonomia delle auto elettriche e i loro lunghi tempi di ricarica, si capisce che i dubbi non sono poi così infondati.

Secondo alcuni studi, quali una recente ricerca dell’Università di Monaco, tenendo conto di tutti questi aspetti, un’auto elettrica finisce con il produrre, insieme a una cospicua caduta dei posti di lavoro, una quantità di CO2 superiore a quella di un motore a combustione interna di ultima generazione. Tanto più che, dati gli elevati costi delle auto elettriche, diverrà conveniente utilizzare per un tempo il più lungo possibile anche le auto più inquinanti oggi sul mercato. Così che ad alimentare il mercato delle auto sono quelle usate, specie di quelle ultradecennali. Con un risultato finale esattamente opposto di quello che si pone l’Europa: un sensibile aumento delle emissioni di gas serra. Per incentivare l’auto a batteria, sarà ancora necessario per un lungo numero di anni incentivare gli acquirenti dell’auto elettrica con pesanti sussidi, dedicati ad acquistare prodotti che, nella quasi totalità , sono prodotti fuori dall’Europa. In primis, questi provengono dalla Cina, da cui andremo ad aumentare la dipendenza, o dagli Stati Uniti, che sotto l’egida del nuovo IRA, hanno previsto un sussidio alle imprese americane di 500 miliardi di dollari, pari a oltre dieci volte il livello massimo dell’aiuto pubblico oggi permesso alle aziende europee.

A queste ragioni vanno aggiunte considerazioni di carattere sociale: quanto alla mano d’opera si calcola che potrebbe ridursi di 600 mila unità, a dire del Commissario europeo per il mercato interno Thierry Breton. Mentre gli enormi investimenti per il necessario rapidissimo aumento dell’eolico e del solare necessari per nutrire le batterie non sembrano facilmente realizzabili. Non è per contro convincente la posizione sempre di Breton che sostiene che l’Unione Europea potrà conservare parte degli impianti tradizionali continuando ad esportare cinque milioni di vetture al di fuori dell’Europa.

E guardando all’Italia? Quali implicazioni ha una politica così radicale sul tessuto industriale nostrano che assorbe ancora una fetta importante nella produzione dei componenti del settore automotive?

Le implicazioni per il nostro paese sono notevoli e le spiego perché. Ad oggi, pur essendo all’ottavo posto tra gli stati europei (senza contare UK) nella produzione finale delle vetture, l’Italia è un importante player nella produzione di componenti. Nel nostro paese vengono prodotti filtri, valvole, testate, iniettori, monoblocchi, pompe, serbatoi e delle tante altre diavolerie che compongono un’auto spinta da motore diesel o a benzina, e che invece non sono necessarie nelle vetture elettriche, che sono molto più semplici e si muovono spinte unicamente dalle costosissime batterie. La mancanza di una visione unitaria all’interno del paese, tra le diverse componenti governative e della società, ha già comportato la localizzazione di impianti per la produzione di batterie a nord delle Alpi. L’Italia, da questo punto di vista, rimane assai indietro rispetto i partner e competitor europei.

Il venir meno della necessità di tutte le componenti che sono parte del motore endotermico si tradurrà in una riduzione di oltre cinquantamila posti di lavoro e un notevole danno alla nostra bilancia commerciale, dato che siamo grandi esportatori verso le imprese automobilistiche europee. Per porre rimedio a questa criticità, saranno poi necessarie ulteriori risorse statali con un aggravio per le finanze dello Stato. 

Di fronte a tutte queste considerazioni, mi chiedo se scelte così drastiche e tempi così ristretti siano la decisione migliore per proteggere il futuro del nostro pianeta. Il mio timore è quello è di intraprendere una transizione finta o non tener conto dei morti. Trascurando gli impatti, rischiamo infatti di interrompere tutto il processo di cambiamento perché diventa insostenibile per tutti.

Chiudiamo con un’ultima considerazione. La decisione europea, per quanto per volontà del legislatore europeo potrebbe essere sottoposta a riesame nel 2025, avrà delle altre conseguenze importanti. Quali?

Come si suole dire in questi casi, la scelta di riesaminare fra 2 anni la norma è una “pezza peggiore del buco” perché, nel frattempo, tutte le grandi decisioni saranno già state messe in atto, con le loro conseguenze, compresa quella di bloccare ogni ricerca per migliorare il funzionamento del motore endotermico.

Inoltre, fermerà i progressi in corso nel campo dei biocarburanti, dell’idrogeno e delle altre tecnologie low carbon. Eppure, il potenziale dei biocarburanti e dell’idrogeno sarebbe enorme e potrebbe dare un contributo notevole anche alla crisi della raffinazione nazionale. Però bisogna produrli a costo conveniente e creare le situazioni legislative per cui si possa resistere. Naturalmente intendiamoci, qui bisogna fare anche uno sforzo tecnologico per arrivare a costi compatibili.

L'Unione europea ha riconosciuto l'importanza della ricerca sulle celle a combustibile già nel 1988, stanziando otto milioni di euro a favore di questo tipo di ricerca nell'arco di un quadriennio. Tuttavia per l’idrogeno verde i costi di oggi sono enormi.