Un colloquio di tre ore per riscaldare le relazioni tra Cina e Stati Uniti. Tanto sarebbe bastato per rimettere in moto la cooperazione per il clima tra i due maggiori paesi inquinatori al mondo, relazione che aveva subito un improvviso arresto in agosto, con la visita a Taiwan della speaker della Camera USA Nancy Pelosi. L’incontro tra il presidente cinese Xi Jinping e la controparte statunitense Joe Biden – il primo in presenza dall’ascesa del politico dem alla Casa Bianca – è avvenuto a margine del G20 di Bali. Durante il colloquio, come menziona il readout di Washington, i due capi di Stato hanno promesso di riprendere il dialogo sulla crisi climatica.

Era il 14 novembre e, in quegli stessi giorni, i rappresentanti di 200 nazioni erano riuniti per parlare di clima in occasione della COP27 di Sharm-el-Sheikh. Alla chiusura dei lavori è stato approvato un fondo di compensazione per i paesi più colpiti dai cambiamenti climatici, sebbene senza aver raggiunto il tetto dei 100 miliardi di dollari promessi nel 2021. Pechino è la grande assente nella lista. Come ha spiegato l’inviato per il clima Xie Zhenhua: “Sosteniamo fortemente le richieste dei paesi in via di sviluppo, in particolare i paesi più vulnerabili, per richiedere questo risarcimento. Anche la Cina è un paese in via di sviluppo e abbiamo anche noi sofferto molto per gli eventi meteorologici estremi". Niente compensazioni monetarie, dunque, ma una promessa di collaborazione sui progetti per l’adattamento ai cambiamenti climatici dei paesi in difficoltà.

La narrazione cinese non è qualcosa di nuovo: da tempo la Repubblica Popolare rivendica la posizione di paladino delle istanze del Sud globale, che si sentirebbe doppiamente vittima dell’Occidente. Da un lato, perché paga le conseguenze più gravi di un fenomeno avviato oltre due secoli fa da quella Rivoluzione Industriale. Un processo di cui hanno beneficiato principalmente i paesi ricchi. Dall’altro, perché “ricattato” con complessi (e spesso onerosi) schemi di sviluppo sostenibile per ottenere i fondi delle Agenzie internazionali che ne ostacolerebbero la crescita economica. Non che la Cina non abbia mai inviato degli aiuti economici ai paesi partner in caso di fenomeni climatici estremi. Per esempio, il Pakistan ha ricevuto 90 milioni di dollari per affrontare le devastanti alluvioni dello scorso settembre.

La diplomazia climatica cinese corre su un doppio binario, un modus operandi che Pechino adotta anche in altri contesti come la finanza e il commercio. La Cina desidera sottolineare il proprio ruolo di “difensore” del multilateralismo rendendosi parte attiva nei colloqui ONU ma, allo stesso tempo, cerca di non vincolarsi eccessivamente agli accordi internazionali e preferisce agire sola o passare alla fase operativa sul piano bilaterale. Durante la COP27, per esempio, Xie Zhenhua ha annunciato che la Repubblica Popolare punta ad abbassare le emissioni di metano entro la prossima decade, ma Pechino continuerà a rimanere fuori dal Global Methane Pledge istituito durante la COP26 che prevede di ridurre tali emissioni del 30% entro il 2030.

La posizione della Cina in tema di sviluppo sostenibile è volutamente ambigua, un atteggiamento coerente con il pragmatismo della leadership del Partito Comunista Cinese (PCC). Dal 1978, anno delle prime riforme di mercato e delle prime aperture agli scambi internazionali, l’obiettivo della Cina è stato quello di garantire una crescita economica capace di sollevare il paese dalla povertà. Oggi, la priorità sembra essere quella della redistribuzione dei profitti (la politica della gongtong fuyu, la “prosperità comune) e la sconfitta della povertà assoluta, che Pechino afferma di aver ottenuto nel 2021. Nel contesto dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC), lo status della Repubblica Popolare è lo stesso dal 2001: paese in via di sviluppo. Questo permette alla Cina di rivendicare una certa libertà di manovra nella gestione delle politiche climatiche, ma anche di proiettare all’esterno l’immagine di “tutor” dei paesi poveri. Un modello di sviluppo eccezionale, che può fare scuola in quelle nazioni dove il Washington Consensus non ha saputo avviare gli ingranaggi della crescita economica.

La riflessione sulle politiche climatiche in Cina non si può quindi definire senza prima prendere in considerazione l’imperativo economico, anche a fronte delle evidenze che oggi gravano sulla salute dell’ambiente e dei cittadini cinesi. L’inquinamento dei suoli ha portato alcune coltivazioni a contenere oltre il doppio dei metalli pesanti rispetto ai limiti di legge. La crescente concentrazione di emissioni climalteranti e sversamento di sostanze chimiche nell’ambiente ha portato al fenomeno dei cosiddetti “villaggi del cancro.

Nel contesto di una transizione “verde” verso metodi di produzione più sostenibili l’elemento energetico è fondamentale. Il carbone continua a dominare il mix energetico, al punto che in alcune municipalità l’implementazione delle rinnovabili non può avvenire senza la “garanzia” di un’alternativa a fonti fossili. Le premesse per la transizione energetica cinese sono state confermate nel 14° Piano Quinquennale (2021-2025), la roadmap che definisce gli obiettivi da ottenere e quali strategie adottare. Nel documento si trovano le indicazioni per puntare al raggiungimento del picco delle emissioni climalteranti entro il 2030, mentre rimane l’imperativo della sicurezza energetica. Per Pechino, questo si traduce non solo in un sistema di distribuzione dell’energia elettrica più efficiente e coerente con la domanda del mercato, ma anche in una minore dipendenza dall’estero sia in termini di approvvigionamento delle fonti fossili che nella tecnologia e il know-how per la transizione energetica.

Oggi la Cina è un paese che sta investendo enormi risorse per la costruzione di parchi solari ed eolici, sia onshore che offshore. Gli impianti idroelettrici hanno raggiunto la quota di 22 mila unità e le nuove centrali nucleari (che per Pechino rientrano nel computo delle energie a emissioni zero) iniziano a utilizzare componenti e materiali 100% made in China. Secondo quanto evidenziano i dati raccolti da Bloomberg, la Cina si posiziona al primo posto tra i paesi che più hanno investito nella transizione energetica, un incremento del 60% rispetto al 2020. La strada verso lo sviluppo verde è aperta. Ma sarà, ancora una volta, con “caratteristiche cinesi”.