Il Ministero della Transizione Ecologica ha varato lo scorso 6 settembre un piano di contenimento dei consumi di gas per 8,2 miliardi di mc tra il 1° agosto 2022 e 31 marzo 2023, che poggia su tre aree di intervento:

  1. la massimizzazione della produzione elettrica con combustibili diversi dal gas, ricorrendo a carbone e olio combustibile in primis (risparmio di gas atteso: 2,1 miliardi di mc);
  2. l’introduzione di limiti di temperatura negli ambienti, di ore giornaliere di accensione e di durata del periodo di riscaldamento (risparmio di gas atteso: 3,2 miliardi di mc);
  3. misure comportamentali volontarie, sia a costo zero, sia che richiedono investimenti iniziali da parte degli utenti, che dovrebbero essere promosse attraverso una campagna di sensibilizzazione (risparmio di gas atteso: 2,9 miliardi di mc).

Il ricorso ai combustibili diversi dal gas: attenzione agli effetti collaterali sul mercato

Per quanto riguarda il ricorso a combustibili alternativi al gas per la generazione elettrica, si ritiene che la soluzione individuata dal MITE sia, nel breve termine, l’unica possibile. Preoccupano, però, gli effetti collaterali di questa misura, quali la contrazione della disponibilità di prodotti come l’olio combustibile.

Questo prodotto è diventato nel corso degli anni sempre più “di nicchia” per effetto di normative ambientali via via più stringenti. Il D.Lgs. n.152/2006 (Testo Unico Ambiente) ne vieta infatti l’utilizzo negli impianti termici civili di potenza inferiore a 300kW già dal 2007 e in quelli superiori a 300kW dal 2011 (con una proroga limitata ad alcuni specifici casi fino al 2017).  Ed ecco, quindi, che anche una fisiologica fermata tecnica di una delle raffinerie che producono olio combustibile, come accaduto di recente nel nord d’Italia, può generare in breve tempo una grave carenza di prodotto per le imprese della distribuzione che operano nella zona e, di conseguenza, per gli utilizzatori finali (l’industria).

Una criticità, questa, non certo contingente, bensì strutturale, che affonda le proprie radici nel progressivo disinvestimento negli asset Oil&Gas, sulla scia di politiche pubbliche apertamente avverse ai combustibili fossili. Politiche che, come da tempo denunciato da Assopetroli-Assoenergia, hanno progressivamente messo a repentaglio l’indipendenza e la sicurezza energetica del Paese e di cui oggi scontiamo gli effetti.

Come il gasolio può (o meglio, avrebbe potuto) contribuire a riscaldare le famiglie

Il contrasto acritico alle fonti fossili si è abbattuto particolarmente sul gasolio e, con riferimento al comparto del riscaldamento, si è tradotto in una campagna per la messa al bando delle caldaie alimentate con questo combustibile. L’esito è stato una drastica erosione della quota di mercato dei combustibili liquidi, che si attesta oggi a circa il 2,5% (fonte ISTAT, “I consumi energetici delle famiglie”, 2021).

Il “Protocollo Clean Air”, siglato a Torino da Governo e Regioni nel 2019, aveva infatti previsto di “introdurre, a partire dal 2024, nelle aree affette da problemi di qualità dell’aria e dove vi sia disponibile la rete di distribuzione del gas naturale, un divieto di utilizzo degli impianti di riscaldamento, pubblici e privati, alimentati a gasolio”. Il protocollo prevedeva inoltre l’introduzione, per il periodo transitorio, dell’obbligo “di utilizzo del gasolio della qualità obbligatoria per il settore dei trasporti (norma europea EN590) in luogo del gasolio da riscaldamento (norma nazionale UNI 6579), per tutti gli impianti di riscaldamento a gasolio delle aree affette da problemi di qualità dell’aria”. La proposta di impiegare il c.d. “gasolio auto” (con un tenore di zolfo di 10 ppm contro i 1000 ppm del gasolio da riscaldamento, nonché con un contenuto fino al 7% in volume di biocarburanti), da sempre promossa e sostenuta da Assopetroli-Assoenergia, non è mai stata strutturalmente implementata.

Di contro, alcune Regioni e Comuni hanno autonomamente iniziato a mettere in cantiere divieti di utilizzo delle caldaie a gasolio e contestuali obblighi di sostituzione, anche con caldaie a metano. Si tratta dell’ennesimo non sense di matrice politica, non suffragato dai dati, reso ancora più grave dall’attuale contesto energetico in cui reperibilità e prezzo del gas metano sono una autentica incognita. Uno studio condotto quest’anno da Innovhub sulle emissioni di una caldaia a gasolio “sul campo” (ovvero in condizioni che rispecchiano fedelmente le reali modalità d’uso e relative emissioni) ha, infatti, dimostrato, ancora una volta, come le performance emissive del gasolio EN590 siano perfettamente comparabili con quelle del metano.

Se anziché dare la caccia alle caldaie a gasolio si fosse realmente promosso lo switch verso il “gasolio auto”, come ponte per la diffusione dei combustibili liquidi low carbon di origine rinnovabile e/o sintetica, oggi il Paese sarebbe stato più resiliente alla crisi energetica e le famiglie avrebbero avuto un’alternativa in più per riscaldare le proprie case, senza rinunciare alla salvaguardia della salute e dell’ambiente.

Misura amministrativa di contenimento del riscaldamento

Il Piano del MITE affida il conseguimento della quota preponderante di risparmi di gas (3,2 miliardi di mc) alle misure di contenimento del riscaldamento, ovvero all’abbassamento della temperatura a 17°C per gli edifici adibiti ad attività industriali e artigianali e a 19°C per tutti gli altri, nonché alla riduzione dei tempi di accensione degli impianti di un’ora al giorno e di 15 giorni.

Lo stesso Ministero, però, dubita dell’efficacia di queste proposte, riconoscendo come non sia “possibile avere un sistema di controllo puntuale del comportamento da parte dell’utenza diffusa”. L’utenza diffusa, intesa come coloro che abitano in case unifamiliari e coloro che dispongono di riscaldamento autonomo, come rilevava pochi giorni fa G.B Zorzoli su queste pagine, rappresenta circa il 35% dell’utenza complessiva. In assenza di una campagna informativa e di sensibilizzazione ad hoc sull’importanza e sui benefici connessi al contenimento del riscaldamento domestico, questa vasta quota di utenza diffusa rischia di mettere a repentaglio il risparmio di circa un 1 miliardo di metri cubi di gas.

È quindi evidente la necessità di rafforzare ulteriormente la misura che, più delle altre, si presta ad essere effettivamente implementata: i tempi di accensione del riscaldamento. Questi, specie laddove vi sono figure professionali deputate alla gestione degli impianti termici e, ancor più, se in presenza di un contratto di servizio energia, possono realmente assicurare un risparmio energetico, misurabile e verificabile.

Per questo motivo, in una nota indirizzata al Ministro Cingolani, Assopetroli-Assoenergia ha proposto di ridurre di ulteriori 15 giorni la stagione termica (per un totale di 30 giorni), ritardandone l'avvio al primo novembre nella “zona climatica E” e anticipandone la chiusura al 31 marzo 2023.

Il prospetto con le tempistiche di accensione proposto è il seguente:

La riduzione, differenziata per zona climatica, si applicherebbe a tutti gli impianti alimentati con gas metano o con altri vettori che risentono degli effetti (sia sui prezzi che sulla disponibilità) del conflitto russo-ucraino.

Tale iniziativa consentirebbe una riduzione del 10% dei consumi annui delle famiglie (circa 1,5 miliardi di mc di gas), alla quale si sommerebbero ulteriori risparmi conseguibili dalle Pubbliche Amministrazioni e dal terziario.

È però necessario procedere con la massima urgenza al posticipo di 15 giorni dell'accensione degli impianti in “zona climatica E”, prevista oggi per il 15 ottobre, dalla quale dipenderebbero oltre il 70% dei possibili risparmi. Un mancato intervento tempestivo su questo segmento rischierebbe, infatti, di compromettere gli effetti dell'intera misura. Occorre, inoltre, lanciare subito un segnale forte ai mercati, affinché la domanda si ricalibri sulla ridotta offerta, con la conseguenza di raffreddare i prezzi.