Bisogna fare a meno dei combustibili fossili, in primis del carbone. Una necessità ormai chiara dal secolo scorso, e sancita con un impegno formale durante l’ultima COP di Glasgow, lo scorso novembre. Tuttavia se la maggior parte dei paesi è concorde sulla fine del carbone, altri, come Cina e India che dipendono fortemente da questa fonte nei loro mix energetici, hanno parlato più di phase down” (riduzione) che di “phase out” (abbandono).

Sempre nel 2021, ad aprile, è stata costituita la Glasgow Financial Alliances for Net Zero” (GFANZ) che riunisce, sotto un unico cappello istitutivo, le diverse alleanze finanziarie che puntano al raggiungimento della neutralità carbonica, al capo della quale vi è Mark Carney, un importante economista, banchiere e manager canadese. Tuttavia la GFANZ non contempla ancora la politica del disinvestimento dal carbone, ma solo un impegno a farlo. Pertanto, se in linea teorica l’iniziativa è lodevole, poi, nei fatti, senza la minaccia concreta di un disinvestimento dagli asset del carbone i risultati rimangono modesti. Quel che spiega perché nonostante la convinzione comune che il carbone debba essere eliminato gradualmente, diversi membri della Net-Zero Banking Initiative (NZBI) rientrino nella lista stilata da Urgewald delle istituzioni finanziarie che supportano l'industria del carbone.

Nel febbraio 2022, insieme a oltre 20 ONG, tra cui l'italiana ReCommon, Urgewald ha pubblicato una nuova ricerca sulle banche e gli investitori che stanno dietro l'industria globale del carbone. Il rapporto ha come punto di partenza la Global Coal Exit List (GCEL) di Urgewald che copre 1.032 aziende di tutti i settori del carbone: estrazione, trasporto e compravendita, gestione di impianti per la produzione di energia elettrica attraverso la combustione di carbone e delle infrastrutture collegate. La nostra ricerca finanziaria prende in esame tutti i prestiti e le sottoscrizioni delle società che rientrano nella GCEL registrati negli ultimi tre anni; esclude i green bond e finanziamenti espressamente diretti ad attività non carbonifere.

Quello che emerge è che le banche commerciali hanno indirizzato oltre 1,5 trilioni di dollari statunitensi verso le società GCEL. 12 banche afferenti a 5 paesi sono responsabili del 48% (174 miliardi di dollari) del totale dei prestiti alle società GCEL, quest’ultimi pari a 363 miliardi di dollari. Di queste 12 banche, 10 sono membri della Net-Zero Banking Initiative: Mitsui, Mitsubishis UFJ, SMBC e Sumitomo Mitsui dal Giappone; Citi, Bank of America, JPMorgan e Wells Fargo dagli USA e Barclays e BNP dall'Europa.

Le 12 principali banche che fanno prestiti alle società GCEL

Fonte: Urgewald

Da un punto di vista regionale, la sottoscrizione di bond o shares relativi al carbone è dominata dalla Cina. In totale, dal 2019 sono stati circa 1,2 i trilioni di dollari destinati a sostenere l'industria del carbone. Delle prime 12 banche che coprono il 39% delle sottoscrizioni, 11 sono cinesi e la dodicesima è JP Morgan Chase. La banca statunitense è membro di GFANZ ed è l'unica banca quotata sia tra i principali istituti di credito che tra i principali sottoscrittori. Il suo elenco di clienti carboniferi nel 2021 include le società più inquinanti del pianeta in termini di volumi emissivi prodotti: China Huaneng, Eskom, American Electric Power e Adani. E questo nonostante abbia lanciato nel 2020 una nuova politica sul finanziamento al carbone.

I primi 12 soggetti che offrono servizi di sottoscrizione al carbone

Fonte: Urgewald

Alla fine, non importa se le banche sostengono l'industria del carbone fornendo prestiti o servizi di sottoscrizione, quest’ultime fino a dicembre 2021 pari a 1,2 trilioni di dollari. Entrambe le azioni portano allo stesso risultato: ingenti somme di denaro vengono fornite a un settore che è il peggiore nemico del nostro clima. Tuttavia, e nonostante questo, la Net Zero Banking Alliance non riesce ancora ad applicare i suoi obiettivi di riduzione delle emissioni alle attività di sottoscrizione.

Ora, merita rilevare, come molti membri della GFANZ non figurino nella lista dei maggiori investitori globali nel settore del carbone. Ma alcuni e anche importanti continuano ad esserci. Tra questi BlackRock e Vanguard che supportano le compagnie petrolifere in tutto il mondo. Le due compagnie hanno, però, due differenti business model: RockRock è il più forte per quanto riguarda gli investimenti passivi (ETFs), mentre Vanguard si focalizza sul management attivo. La loro esposizione al carbone continua ad esser significativa nonostante entrambe aderiscano alla Net Zero Asset Managers Initiative (NZAM) di cui sono gli investitori più importanti con, rispettivamente, 109 e 101 miliardi di dollari. Per ridurre l’impronta carbonica dal loro portfolio, i principali strumenti da loro utilizzati sono il proxy voting (voto per delega) e l’engagement. Il che spiega perché i risultati rimangono non soddisfacenti.

Un caso a sé, fra i maggiori investitori nel carbone, è quello di Allianz. L’assicuratore e asset manager fa parte della Net Zero Asset Owner Alliance e come tale ha preso una posizione contro il carbone. Allo stesso tempo, però, ha continuato ad aumentare la propria esposizione verso i combustibili fossili. Discrasia che si spiega con le politiche delle sussidiarie di Allianz: ovvero l’asset manager Allianz Global Investors (AGI) e PIMCO. AGI segue a rilento le politiche della società madre e una nuova politica in materia di carbone verrà implementata solo a partire da giugno 2022. PIMCO, invece, deve addirittura ancora prendere un impegno a ridurre il proprio supporto ai combustibili fossili. Per questa ragione, Allianz si posiziona, tuttora, al 20° posto fra i maggiori investitori nel carbone con 9,4 miliardi di dollari. Diverso invece, l’approccio di Axa, un competitor di Allianz, che ha esteso le proprie scelte in materia di esclusione dei combustibili fossili anche alle consociate o imprese terze, come ad esempio la Amundi. La compagnia francese, infatti, ricopre una posizione marginale fra gli investitori in carbone e si colloca circa 300 posti dietro Allianz con soltanto 108 milioni di dollari investimenti in questa fonte.

In conclusione, la nostra ricerca evidenzia che è necessaria un’azione più forte e concreta in materia di finanza climatica. È necessaria tanto una politica di engagement che crei un legame con le compagnie carbonifere per invitarle alla transizione in maniera efficace e tempestiva, quanto procedere al disinvestimento nel caso di inazione delle compagnie stesse. Urgewald, insieme a Reclaim Finance, ha identificato 10 punti che dovrebbero essere integrati nei piani di transizione delle compagnie carbonifere con l’obiettivo di preservare il clima. Nella lista GCEL 2021, su 1.032 compagnie, 45 hanno annunciato una data per l’uscita dal carbone. 28 di queste hanno un piano di uscita che risponde alle tempistiche necessarie, ovvero prima del 2030, e si tratta di compagnie che operano in UE o nei paesi OECD. Soltanto 4 di queste rispondono alle richieste previste dall’Accordo di Parigi e perciò non sono state considerate nella nostra ricerca. Per tutti gli altri investitori e banche, identificati come i maggiori supporter dell’industria globale del carbone, occorrerà ancora altro tempo per ridurre dal proprio portfolio gli investimenti il carbone. Serve però urgentemente una presa di coscienza del fatto che bisogna disinvestire dal carbone e farlo al più presto altrimenti difficilmente potrà esserci una transizione equa e sostenibile.

I primi 24 più importanti investitori in carbone

Fonte: Urgewald