Nella settimana fra il 21 e il 26 marzo si è tenuto a Diamniadio, in Senegal, il 9° Forum Mondiale dell’Acqua (FMA) la più importante manifestazione sulla gestione delle risorse idriche, organizzata ogni tre anni (Covid-19 permettendo) dal Consiglio Mondiale sull’Acqua (World Water Council), un’organizzazione internazionale supportata dalla Banca Mondiale e da varie multinazionali. Il tema di questa edizione era “Water security for peace and development”. E sebbene questo tema fosse stato annunciato al termine dell’ottavo FMA tenutosi a Brasilia nel 2018, quando gli organizzatori non potevano prevedere l’attuale stato del pianeta, parlare oggi di acqua e sicurezza ci mette di fronte a una serie di domande molto diverse rispetto a quelle che ci saremmo posti qualche anno fa. I venti di guerra che scuotono l’Europa fanno riemergere prepotentemente il tema della sicurezza tradizionale – per intenderci, quella dei bombardamenti e delle guerre interstatali – che negli ultimi decenni molti di noi avevano messo da parte. Il crollo dell’Unione Sovietica e la fine del sistema bipolare, infatti, spinsero numerosi politologi e analisti a concentrarsi sui temi emergenti della fine del 20° secolo: il degrado ambientale, la crisi climatica, la critica post-coloniale e lo sviluppo ineguale, e la sicurezza alimentare e idrica. Queste sono sfide che trascendono i confini statali, suscitando quello che Doreen Massey avrebbe definito un senso globale del luogo. L’unico confine che conta veramente è l’atmosfera, avremmo potuto dire, ma oggi sappiamo che non è così.

Per spiegare cosa intendo è necessario fare un passo indietro. Nel 1895 l'allora procuratore generale degli Stati Uniti, Judson Harmon, preparò un parere su una disputa territoriale tra il Messico e gli Stati Uniti, incentrata sullo sfruttamento delle acque del Rio Grande. L’opinione, che divenne nota come dottrina Harmon, sostiene che uno Stato detiene la sovranità assoluta sulle acque che attraversano il suo territorio, il cosiddetto principio di sovranità territoriale assoluta. Sulla base di questo principio, un paese ha il diritto di esercitare il suo pieno e completo potere su un fiume, anche se tale comportamento potrebbe potenzialmente rendere inutilizzabile il corso d’acqua per gli altri paesi ripariani. Sebbene in passato gli Stati Uniti e altri paesi a monte abbiano sposato questo principio, la dottrina Harmon è gradualmente diventata obsoleta perché considerata essenzialmente ingiusta. Tale tendenza è diventata ancora più marcata con lo spirito cooperativo e la spinta istituzionalista emerse dopo le due guerre mondiali. Oggi la dottrina Harmon appare anacronistica, e ad essa è subentrata la convenzione ONU sull'utilizzo dei corsi d'acqua internazionali per scopi diversi dalla navigazione, che si basa sui principi dell’uso cooperativo, equo e ragionevole di un corso d’acqua.

Spostiamoci ora al 2019. Siamo in pieno Antropocene, e gran parte della popolazione mondiale è permeata da un nuovo senso di consapevolezza e collettività legata alla crisi ambientale e climatica. L'attivista svedese Greta Thunberg (insieme a milioni di sostenitori) ci ricorda che ‘la nostra casa è in fiamme!’, ed effettivamente la Foresta Amazzonica – la più grande foresta pluviale al mondo – prende fuoco, e lo fa a un ritmo senza precedenti. Molti leader mondiali accusano il neoeletto presidente brasiliano Jair Bolsonaro di avere favorito questi incendi. Durante il suo primo discorso all’Assemblea Generale dell’ONU, Bolsonaro risponde sostenendo che è sbagliato considerare l’Amazzonia patrimonio dell’umanità: il Brasile ha sovranità assoluta sull’Amazzonia, e ne può perciò disporre a suo piacimento. Il principio di sovranità territoriale assoluta forse non è poi forse così anacronistico.

Torniamo quindi all’acqua, risorsa relazionale per eccellenza e dal forte valore simbolico, che mal si adatta ai confini politici e alle scatole ideologiche dove talvolta cerchiamo di contenerla. Mai come in questa epoca storica l’acqua è al centro di un nesso strategico fra produzione di energia (soprattutto) idroelettrica, espansione dell’agricoltura irrigua e intensi processi di urbanizzazione. Il nesso acqua-energia-cibo non è solo un approccio concettuale che ci porta ad apprezzare le interrelazioni tra natura e società, ma è anche un approccio pratico per evitare il rischio di un uso insostenibile delle risorse idriche. Pensiamo per esempio a come l’utilizzo di pompe d’irrigazione solari a goccia aiuti i piccoli agricoltori in Africa Subsahariana e America Latina ad aumentare la produttività agricola, e ridurre le emissioni di gas serra per unità di energia utilizzata per il pompaggio dell'acqua. Al tempo stesso, l’acqua è cruciale anche in un altro nesso, quello fra populismo, nazionalismo e affermazione della sovranità territoriale. Questo nesso ha spesso per fulcro la costruzione di grandi dighe con centrali idroelettriche, e in questo caso tornano utili due esempi, entrambi appaltati alla società italiana Webuild (ex Salini). In Africa, la Grand Ethiopian Renaissance Dam (GERD), una gigantesca diga a gravità sul fiume Nilo Azzurro, ha infatti scatenato un acceso conflitto tra Etiopia, paese costruttore, ed Egitto e Sudan, i due ripariani interessati che temono che il riempimento del bacino causi una riduzione della loro disponibilità d'acqua. Lungi da essere solo un conflitto idrico, quello intorno alla GERD è un conflitto legato tanto all’affermazione dell’interesse nazionale etiopico, quanto a quello dell’Egitto e del Sudan. In questo modo, chi sostiene la costruzione in Etiopia è da considerarsi un patriota, chi non lo fa, un traditore. In maniera simile, la costruzione della diga di Rogun in Tajikistan – un’ex repubblica sovietica dell’Asia centrale – va ben oltre il suo significato infrastrutturale. La diga, che nel corso degli anni è stata più volte inaugurata con cerimonie a forte spirito propagandistico, è il pallino personale del presidente tagiko Emomali Rahmon. Al potere dal 1992, il presidente considera Rogun espressione dello spirito nazionale del Tajikistan, e anche in questo caso, la spinta nazionalista è alimentata dalla costruzione ideologica noi/loro nei confronti del confinante Uzbekistan, che si è fermamente opposto al progetto temendo che il Tajikistan chiuda i rubinetti.

L’acqua è fonte di vita, ma è anche risorsa esistenziale. L’acqua è una risorsa difficile da esportare, pesante, fortemente locale, nonché inegualmente distribuita su scala regionale, nazionale e subnazionale. In un mondo che si trincera, la proliferazione di regimi populisti a forte tendenza autarchica sia in Europa che altrove rende evidente il collegamento tra risorse idriche e populismo. Per queste ecologie populiste, il territorio è il contenitore impermeabile dell’interesse nazionale e come tale va difeso da minacce esterne alla sua integrità e sovranità. Tuttavia, senza scomodare la crisi climatica, la guerra in Ucraina ci porta a riflettere sulle interdipendenze del sistema economico globalizzato, messe in luce non solo dagli sbalzi del mercato energetico, ma anche da quelli di beni contenenti grandi quantità di acqua virtuale come grano, mais, granturco e olio di girasole. Russia e Ucraina esprimono rispettivamente il 21% e il 10% delle esportazioni mondiali di grano. Chi faceva affidamento su questo grano dovrà nel breve termine trovare altri fornitori, ed eventualmente decidere se produrlo nel proprio territorio, rivedendo le proprie politiche dell’acqua. È difficile immaginare che questo porti dei benefici, se non agli speculatori.