«I forti fanno ciò che possono, i deboli soffrono ciò che devono». Sembra incredibile come, a distanza di più di due millenni, uno degli aforismi più noti di Tucidide spieghi ancora l’escalation di tensione che nelle ultime settimane sta avvolgendo l’Ucraina. La prolungata crisi interna di quest’ultima, infatti, ha innescato un braccio di ferro tra grandi potenze, Federazione Russa e Stati Uniti, con i Paesi europei nel ruolo di osservatori partecipanti.

Se appare probabile che buona parte dei costi di questa vicenda saranno pagati dai cittadini ucraini in termini di tracollo economico, instabilità politica e sovranità limitata, più difficile è prevedere l’esito della competizione tra Mosca e Washington. È possibile, dunque, provare a mettere in fila quanto sappiamo, lasciando ad altri l’arduo compito di perscrutare gli arcana imperii. Numerosi interrogativi, infatti, avvolgono le ragioni per cui il Cremlino ha deciso di imprimere un colpo d’acceleratore proprio ora a una situazione che versa in uno stato di profonda precarietà almeno dal 2014. Altrettanti interrogativi aleggiano sulla sua strategia, ovvero quali mezzi sta impiegando in vista del conseguimento di quali fini.

Ci sono almeno quattro ragioni che, dalla prospettiva del Cremlino, hanno reso l’inverno 2021/2022 particolarmente propizio per cavalcare la crisi ucraina. Il primo – vera e propria condizione permissiva dell’intera escalation – è che dopo un anno dall’insediamento di Joe Biden ormai è chiaro come anche l’amministrazione in carica rivolga prioritariamente le sue attenzioni alla Repubblica Popolare Cinese, che reputa la principale minaccia strategica agli interessi vitali americani. Di conseguenza, l’attuale corso della Casa Bianca – in linea di continuità con quanto fatto da Barack Obama e Donald Trump – ha sviluppato un approccio strategico globale fondato sul Pivot to Asia.

Se è difficile, quindi, credere che qualcuno a Washington voglia “morire per il Donbass”, lo è tanto più – e arriviamo alla seconda ragione – nell’anno delle elezioni di mid-term, peraltro con un presidente che ha appena chiuso il 2021 con un record negativo di consensi. Non è verosimile che nei prossimi mesi Biden e il Partito Democratico vogliano cimentarsi in una campagna elettorale dove sarebbero chiamati incessantemente a spiegare ai contribuenti americani perché i soldi delle loro tasse sono investiti per la difesa di un Paese che non rientra nel novero degli alleati dell’America, mentre quest’ultima ancora soffre per le piaghe economiche e sociali inferte dalla pandemia.

La terza ragione riguarda gli affari interni del continente europeo. Su questa piazza, al momento, non è presente un leader in grado di guidare l’Unione Europea verso una posizione omogenea e coerente sul tema, qualunque essa sia. Tra gli azionisti di maggioranza di Bruxelles, Emmanuel Macron pensa alle elezioni presidenziali di aprile, Mario Draghi è impantanato tra gestione dell’emergenza Covid-19 e passaggio di consegne al Quirinale e Olaf Scholz deve ancora accreditarsi come leader internazionale. Tutto ciò, naturalmente, ha un riflesso diretto anche sulla NATO dove, a dispetto della narrativa ufficiale, gli alleati europei hanno posizioni anche radicalmente diverse sulla questione. Soprattutto i Paesi dell’Europa meridionale – Francia in testa, come confermato dal discorso di Macron di presentazione del semestre di presidenza europea – non considerano prioritario il Fianco est, ancor più se non sono messi in discussione i territori di alcun Paese membro.  

E, infine, non si dimentichi come per una potenza come la Russia che, oltre allo strumento militare, trova nell’energia l’altro suo principale grimaldello per scardinare il mondo esterno, l’inverno non può che essere la finestra temporale migliore per agire sul mercato dei prezzi, rompere il fronte dei suoi potenziali nemici e influenzare le dinamiche politiche internazionali.

La coincidenza astrale che si verifica in questi mesi, dunque, permette alla Russia di fare ricorso a un uso integrato di strumenti militari e non militari per esercitare pressione tanto sull’Ucraina, quanto sugli Stati Uniti e sulla NATO.

Come spiegato da Giulia Ginevra Nascetti su Geopolitica.info la New Generation Warfare (in russo Voina novogo pokoleniia) suggerisce una coercizione nei confronti degli avversari di tipo “olistico”. Pur contando in prima battuta sullo strumento militare, lo integra con un’ampia serie di strumenti complementari: dall’economia alla cibernetica, passando per l’informazione e la diplomazia. È quanto abbiamo visto andare in scena in Ucraina, con i circa centomila soldati russi ammassati al confine, un’imponente esercitazione militare in Bielorussia alle porte, prezzi energetici alle stelle, un cyberattacco contro i principali siti internet del governo di Kiev e – ciliegina sulla torta – un pacchetto di proposte per la soluzione della crisi irricevibili per gli Stati Uniti e la NATO.

La domanda delle domande, pertanto, è: per ottenere cosa? Sembra possibile escludere che la Russia progetti di annettere fette significative del territorio ucraino. E non solo per i rischi che presenterebbe in termini di imprevedibilità dell’esito e possibilità di escalation con attori esterni. Ma perché non presenta i numeri sul campo per affrontare un’operazione simile. Attaccare ed occupare con circa 25-30 mila effettivi – di questo parliamo se le forze dislocate a ridosso del confine sono composte da circa 100 mila uomini – un Paese da più di 42 milioni di abitanti è militarmente – oltre che economicamente – insostenibile. Senza contare, infine, che è nell’interesse della Federazione Russa che l’Ucraina continui ad avere in seno regioni separatiste e focolai di instabilità, da utilizzare come leve per tenere sempre il Paese sotto scacco.

Altrettanto inverosimile sembra l’ultima richiesta avanzata dal Cremlino alla NATO, ovvero la rinuncia a qualsiasi altro allargamento verso territori un tempo appartenenti al blocco sovietico e il ritiro di missili e unità combattenti dai Paesi che sono entrati nell’Alleanza dopo il 1997. Questo genere di proposta sembra funzionale alla sua circolazione sui media per accusare gli Stati Uniti e i Paesi occidentali di non cercare la pace, ma nessuno al Cremlino la può considerare una proposta su cui si possa realisticamente intavolare un discorso con la controparte americana.

L’attuale dispiegamento di forze, quindi, sembra più l’applicazione della cosiddetta “regola dell’alzo” che prescrive di mirare più in alto di ciò che si vuole realmente colpire invece del climax verso una soluzione militare della questione ucraina. Sebbene in questi casi la smentita sia pronta dietro l’angolo ed esistano precedenti – vedi lo scoppio della Grande guerra – che suggeriscano il contrario, difficilmente le guerre troppo annunciate poi scoppiano davvero.

Al contrario, i tanti incontri a livelli differenti tra Stati Uniti, NATO e Russia – tra cui il Consiglio NATO-Russia che non si riuniva dal 2019 – fanno pensare a una comune volontà di arrivare a una qualche forma di accordo. Per una questione di credibilità, ovviamente la NATO non può rinnegare trent’anni di open door policy. Né gli Stati Uniti possono permettersi di privare dell’ombrello militare i Paesi dell’Europa dell’Est, riconoscendo così una sfera di influenza alla Russia che assomiglierebbe a quella della Guerra fredda.

Il punto di incontro su cui gli Stati Uniti e la NATO potrebbero tacitamente convenire con la Russia potrebbe essere una “finlandizzazione” di fatto dell’Ucraina, ovvero un rinvio sine die del suo ingresso nell’Alleanza (insieme a quello di Georgia e Moldova). Proprio nel fine settimana, d’altronde, il Washington Post riportava che da parte americana sarebbe stato chiesto di mantenere segrete le risposte scritte che sarebbero state fatte pervenire ai russi. Non sarebbe naturalmente il famoso riconoscimento del primato sull’Estero vicino a cui anela Mosca, ma costituirebbe un parziale riconoscimento delle rivendicazioni russe. Come è noto, d’altronde, nelle trattative ogni parte rinuncia a qualcosa. E né Washington, né Mosca possono permettersi di restare invischiati in una spirale competitiva prolungata mentre l’influenza cinese continua a crescere su scala globale.