Al fine di monitorare gli impatti dei cambiamenti climatici e di valutare le necessarie azioni per fronteggiare le conseguenze in atto sui nostri territori, il Sistema nazionale per la protezione dell’ambiente ha presentato il primo “Rapporto nazionale sugli indicatori di impatto dei cambiamenti climatici”. Quello che emerge è un quadro preoccupante e che ci invita a riflettere. Ne abbiamo parlato con la Dott.ssa Francesca Giordano che ne ha coordinato i lavori
L’ambiente alpino e i mari italiani sono gli osservati speciali nel monitoraggio dei possibili effetti dei cambiamenti climatici in Italia. Quali sono i fenomeni che stanno interessando questi ambienti?
Gli impatti fisici del cambiamento climatico, quali ad esempio la fusione delle masse glaciali, l’incremento delle temperature superficiali e l’innalzamento del mare, possono essere considerati dei veri e propri fenomeni “sentinella” rispetto alle variazioni del clima per la loro risposta diretta e rapida alle dinamiche climatiche. Gli indicatori che si utilizzano per monitorare tali fenomeni sono quindi preziosissimi strumenti che consentono di misurare l’intensità e la velocità con cui sia sta manifestando il riscaldamento globale. Per tale motivo, tra i numerosi indicatori messi a punto nell’ambito del Rapporto SNPA, quelli afferenti all’ambiente alpino e agli ecosistemi marini sono stati osservati con un’attenzione “speciale”.
Ci potrebbe raccontare quali sono i principali?
Lo stato di salute dell’ambiente alpino è stato esaminato attraverso due specifici indicatori: il “bilancio di massa dei ghiacciai”, finalizzato ad evidenziare le variazioni annuali della massa glaciale e il rispettivo andamento nel tempo, e la “degradazione del permafrost”, avente l’obiettivo di misurare la variazione della temperatura del permafrost ad una specifica profondità (35 m). A causa dell’effetto combinato dell’incremento delle temperature e di una progressiva riduzione delle precipitazioni invernali, si registra per i sei corpi glaciali analizzati una perdita costante di massa con una media annua pari a oltre un metro di acqua equivalente (vale a dire lo spessore dello strato di acqua ottenuto dalla fusione del ghiaccio) dal 1995 al 2019: il bilancio cumulato mostra perdite che vanno da un minimo di 19 metri di acqua equivalente per il ghiacciaio del Basòdino fra Piemonte e Svizzera al massimo di quasi 41 metri per il ghiacciaio di Caresèr, in Trentino Alto Adige. Anche per i due corpi glaciali osservati nei casi pilota regionali, Timorion (Valle d’Aosta) e Alpe Sud (Lombardia), si osserva una significativa tendenza negativa. Ulteriore segnale preoccupante proviene dalle analisi della temperatura del permafrost: nei due siti pilota regionali di Valle d’Aosta e Piemonte si evidenzia, infatti, un riscaldamento medio di circa +0,15 °C ogni 10 anni con un’elevata probabilità di “degradazione completa” entro il 2040 nel sito piemontese.
Per quanto riguarda i mari, invece?
Per quanto riguarda la situazione dei nostri mari, sono stati utilizzati alcuni indicatori, tra cui si segnalano in particolare: la “temperatura superficiale del mare” e la “variazione del livello del mare”. Anche in questo caso i segnali sembrano essere già chiari, e senz’altro coerenti rispetto allo scenario che si attende in un contesto di cambiamento climatico: le variazioni annue di temperatura superficiale del mare mostrano incrementi in tutti i mari italiani, con alterazioni marcate nel Mar Ligure, Adriatico e Ionio Settentrionale e valori maggiori in prossimità della costa pugliese e lucana che superano i 0,08 °C all’anno. Le variazioni del livello del mare mostrano altresì incrementi che, seppur dell’ordine di pochi millimetri l’anno (dal 1993 al 2020 valori medi del trend pari a circa 2,2 mm/anno con picchi nel Mare Adriatico di circa 3 mm/anno), sono continui e appaiono, ad oggi, irreversibili. Particolare attenzione merita il caso di Venezia, dove è presente un fenomeno combinato di eustatismo (innalzamento del livello del mare) e subsidenza (abbassamento del livello del terreno): nel lungo periodo (1872-2019) il tasso di innalzamento del livello medio del mare si attesta sui 2,5 mm/anno, valore più che raddoppiato a 5,3 mm/anno considerando solo l’ultimo periodo (1993-2019).
Cosa si intende per deglaciazione e degrado del permafrost? E perché tali fenomeni sono negativi per l’ambiente e non solo? Un’altra fonte di preoccupazione è la variazione del livello del mare, perché?
Con il termine deglaciazione si intende il processo di fusione accelerato che porta al ritiro permanente dei ghiacciai, come effetto combinato delle elevate temperature estive e della riduzione delle precipitazioni invernali. Con l’espressione di degrado del permafrost, misurato attraverso la variazione della temperatura ad una specifica profondità, ci si riferisce, invece, al processo di progressivo deterioramento del terreno tipico delle regioni fredde, dove il suolo è perennemente ghiacciato e fa registrare temperature negative al di sotto dello strato attivo per almeno due anni consecutivi. La degradazione del permafrost è principalmente determinata dal progressivo approfondimento dello strato attivo, ovvero lo strato superficiale che si scongela durante l’estate e si ricongela durante l’inverno. Fusione dei ghiacciai e degrado del permafrost sono fenomeni negativi dal punto di vista ambientale: i ghiacciai rivestono, infatti, un ruolo di regolazione del deflusso idrico fornendo un’enorme quantità di acqua dolce di cui si approvvigionano le comunità a valle, con le connesse attività socio-economiche (produzione di energia idroelettrica, agricoltura, ecc.), ma di cui beneficiano anche gli ecosistemi naturali che dall’acqua dipendono. Lo studio delle dinamiche del permafrost, invece, è particolarmente importante nelle Alpi dove vi è un’elevata esposizione di persone e infrastrutture ai rischi legati ai movimenti di versante: con la fusione del ghiaccio contenuto nel permafrost sui versanti montani viene, infatti, a mancare il “collante” che tiene insieme suolo, detrito e roccia, dando origine ad un incremento della pericolosità naturale in termini di instabilità dei versanti.
Infine, l’innalzamento del livello del mare costituisce fonte di preoccupazione per le conseguenze sulle coste come l’aumento delle aree potenzialmente soggette ad inondazione (es. città costiere con gli aspetti ambientali, sociali ed economici associati), maggiore erosione costiera, intrusione di acqua salata e aumento della salinità nella riserva di acqua dolce, “marinizzazione” delle lagune costiere.
Il concetto di “stress idrico” è ormai diventato parte della nostra quotidianità, con effetti sempre più evidenti su ecosistemi, colture agricole, attività economiche e vita domestica. Quali sono le evidenze di stress idrico riscontrate nel Rapporto per gli ecosistemi e le colture agricole?
Significative evidenze di stress idrico per le colture analizzate, come il mais, l’erba medica e la vite, e per alcuni ambienti naturali osservati (es. landa carsica, faggeta, pecceta), si riscontrano rispettivamente nei casi pilota di Emilia-Romagna e Friuli-Venezia Giulia. In questi casi, opportuni indicatori relativi al cosiddetto “deficit traspirativo” sono stati elaborati con l’obiettivo di quantificare eventuali situazioni di carenza continuativa di rifornimento idrico, calcolata su determinate finestre temporali, per le colture agricole o per determinate specie vegetali. I risultati hanno mostrato valori nelle tendenze di lungo termine del deficit di diversi mm a decennio: il mais, ad esempio, presenta l’incremento più elevato nel deficit cumulato massimo che negli ultimi 60 anni indica un trend di 8 mm/decennio per i 30 giorni e di 20 mm/decennio per i 90 giorni mentre la vite 5 mm/decennio sui 30 giorni e 18 mm/decennio sui 90 giorni. Tutte le tendenze valutate nel caso friulano mostrano valori di aumento del deficit traspirativo fino a 22mm/decennio durante l’intero anno.
Le conseguenze dello stress idrico sulla vegetazione possono comportare un rallentamento del loro ciclo di crescita e riproduttivo, con evidenti rischi sulla produzione, nel caso delle colture agricole, o degrado e perdita di determinati ecosistemi, nel caso delle piante spontanee. Tali rischi vanno opportunamente valutati soprattutto nell’ambito delle politiche di gestione della risorsa idrica e nelle strategie di adattamento.