La pandemia ha cambiato il nostro futuro in modo percepibile e consistente. Forse non è vero che “nulla sarà più come prima” ma è senz’altro vero che molte cose saranno cambiate e che dovremo abituarci a una “nuova normalità”, o a più “nuove normalità”. In primo luogo, perché la pandemia globale ci ha messo di fronte a una discontinuità tangibile che rafforza la nostra capacità di comprendere che le “grandi crisi” sono possibili: oggi la crisi sanitaria, domani, forse, quella climatica. In secondo luogo, perché dovremo gestirne gli effetti diretti per ancora molto tempo. E, in terzo luogo, perché ora sappiamo, sono gli esperti a dircelo, che le interconnessioni multiple di un mondo globalizzato rendono probabili, se non certe, nuove crisi anche in futuro.

Oggi al centro c’è la crisi sanitaria, ma è ben chiaro che la strategia relativa alle future emergenze pone in primo piano il tema del cambiamento climatico, che comporterà nei prossimi anni grandi trasformazioni di cui non tutti sono pienamente consapevoli. Occorre ridurre in modo drastico le emissioni di carbonio, del 50% in pochi anni e poi ancora di più nel medio-lungo termine, fino a una completa neutralità, al fine di scongiurare un aumento eccessivo delle temperature, l’aumento del livello dei mari, desertificazioni, eventi atmosferici estremi, deforestazione, carestie e perdita di biodiversità.

Ciò richiede soluzioni tecnologiche d’avanguardia (forte elettrificazione, passaggio da fonti fossili a rinnovabili) con investimenti massicci per accelerare la transizione energetica, senza nascondere che il costo economico sarà estremamente elevato, gli ostacoli decisamente complessi e le incertezze ampiamente diffuse. Il problema, ancora una volta, è globale e richiede soluzioni globali, per quanto implementate a livello nazionale. La modifica strutturale della produzione e dell’utilizzo delle diverse fonti energetiche produrrà – nei fatti ha già iniziato a produrre – forti effetti geo-economici e geo-strategici. Per esempio, nell’arco dei prossimi anni il declino delle fonti fossili come petrolio e carbone a favore di quelle solari ed eoliche determinerà gravi problemi economici e finanziari per i Paesi che si basano sulle prime e crescenti vantaggi per chi sta puntando sulle seconde. A livello di grandi gruppi energetici, nel lungo termine, o forse già nel medio, le imprese petrolifere e carbonifere vedranno crollare il valore dei loro asset con effetti rilevanti. E i Paesi, come quelli del Medio Oriente, a forte vocazione petrolifera, saranno chiamati (già lo sono) a trasformazioni strutturali per le quali sono tuttora scarsamente preparati.

Lo scenario appena descritto sembra sottintendere la rottura di un equilibrio molto fragile che permetteva all’umanità di sopravvivere e di perseguire la ricerca di un benessere sempre più orientato alla collettività. La tempesta perfetta che rischia di abbattersi sulla nostra generazione è data dalla possibile combinazione tra le crisi che fino ad oggi sembravano viaggiare su binari paralleli. Crisi sanitaria, crisi migratoria, crisi climatica, crisi del debito. Occorre quindi intraprendere una seria riflessione sulle sfide che ci aspettano, a partire dal ripensamento del ruolo e dei fini di quei soggetti che alimentano le economie e guidano le evoluzioni dei mercati: le imprese.

Il manifesto della Business Roundtable dell’agosto 2019, e altri analoghi pubblicati negli ultimi due-tre anni hanno, come inevitabile, aperto le cataratte di un dibattito, peraltro ormai centenario, sui fini dell’impresa, o purpose come va di moda dire oggi. Per molti il passaggio, solo apparentemente innovativo, del manifesto segna la fine del mantra della massimizzazione del valore per gli azionisti per traghettare il business verso un’era di maggiore tutela degli interessi degli stakeholder, tra i quali emerge in primo luogo l’ambiente globale, elemento che appare sovraordinato rispetto agli altri. Ossia, per stakeholder non si considerano più solo i gruppi sociali rappresentati nella e dalla impresa come i dipendenti, i fornitori e i clienti, ma anche le realtà circostanti, da quella più ristretta costituita dalle comunità territoriali e locali a quella più ampia di tutte, ossia niente meno che il futuro del pianeta nell’attuale contesto di cambiamento climatico.

Il documento sottoscritto da circa 200 Ceo nordamericani esprime la volontà di cambiamento di alcune tra le più influenti imprese mondiali. Tra di esse, anche aziende alla cui testa si pongono alcuni tra i più potenti percettori di reddito del mondo, di norma espressione della rivoluzione digitale, con patrimoni personali più consistenti del PIL di molti Stati. Va ribadito che l’appello lanciato non emerge all’improvviso e dal nulla, ma va anche detto che sarebbe sciocco ritenere che non ha e non avrà effetti di rilievo.

Quel che è certo è la messa in discussione del fenomeno del cosiddetto short-termism, più diffuso negli Usa che in Europa e in Italia (e più tra le società quotate che tra le imprese famigliari) che induce spesso le leadership aziendali a pratiche in conflitto con gli interessi di lungo termine degli stakeholder. Una patologia alimentata sostanzialmente da due prassi consolidatesi di recente: l’adozione delle stock option come base delle retribuzioni dei manager, che spesso induce a scelte di breve termine per massimizzare i valori azionari nel breve; e la pratica, meno analizzata e discussa, del sempre più massiccio ricorso ai buy back, essenzialmente per lo stesso scopo. Prese insieme, queste due pratiche hanno l’effetto di gonfiare artificialmente il valore azionario, premiando nel breve sia gli azionisti sia i manager, riducendo però le risorse da dedicare a investimenti sostenibili di lungo termine e al benessere e allo sviluppo professionale dei dipendenti.

Aziende, soprattutto di grandi dimensioni, che si propongano di seguire le indicazioni di un manifesto orientato al purpose, dovrebbero quindi prendere in esame e rivedere i meccanismi di governance e di incentivazione dei manager per creare, in accordo con gli azionisti e senza penalizzazioni del mercato, un valore di lungo termine condiviso e sostenibile. Questo, per soprammercato, richiederà anche una seria riflessione sui compensi stellari riservati ai “campioni” del management, probabilmente ingiustificati rispetto all’apporto effettivo ai risultati dell’impresa e sostanzialmente ingiustificabili per una buona parte dell’opinione pubblica, al netto di ovvie e sgradevoli posizioni demagogiche.

Malgrado abbondanti prove al contrario, sono molte le imprese, gli imprenditori, gli azionisti e i manager professionisti a porre se non al centro, almeno in posizione preminente, l’idea che la creazione di valore debba andare oltre la generazione e la massimizzazione del profitto e la sua ripartizione, in forme diverse e variamente contrattate, tra gli azionisti e i manager stessi.

Una dimostrazione che qualcosa sta cambiando è data dalla crescente sensibilità e responsabilità che i principali gruppi economici e finanziari globali stanno riservando agli aspetti ambientali e climatici. Lo ha scritto Larry Fink, fondatore e presidente di Black Rock, la più grande società di investimento al mondo, in una lettera che a inizio 2020 ha indirizzato ai propri clienti e ai Ceo delle società in cui investe: “la sostenibilità costituirà il nuovo standard per gli investimenti”.

La posizione del maggiore investitore privato del modo non è dissimile, peraltro, da quelle che da qualche tempo vengono espresse anche da banche di grande dimensione e istituti finanziari, così come dalle maggiori compagnie di assicurazione, da Generali ad Allianz, non più disposte ad assicurare aziende non impegnate su attività a basso impatto climatico. Ancora più significativa da questo punto di vista è la decisione assunta dai maggiori fondi pensione del mondo che nel loro insieme gestiscono risparmi dei dipendenti delle imprese nell’ordine dei 40 triliardi di dollari, e di alcuni fondi sovrani, primo fra tutti quello norvegese. Questi fondi hanno già preso la decisione di disinvestire gradualmente da aziende eccessivamente legate all’economia del carbonio, giudicando eccessivamente alto il rischio di un loro progressivo declino e perdita di valore (stranded assets). Ad esse hanno preferito aziende impegnate nella transizione energetica, ossia con tassi inferiori e decrescenti di emissioni di CO2, fino alla totale neutralità di emissioni di gas serra.

Che il cambiamento climatico e la guerra alle emissioni di carbonio, la decarbonizzazione, siano in atto è sempre più evidente. L’Unione Europea ha lanciato il suo Green Deal, la Cina colossali programmi analoghi e, anche se si mostrano in estremo ritardo su scala federale, gli Stati Uniti stessi dimostrano grande attivismo sia a livello locale (ad esempio la città di New York) sia a livello di molti stati (es. California). Ma più delle normative e più anche delle misure economiche varate a livello nazionale e internazionale, ciò che potrebbe modificare radicalmente i compiti, e dunque il purpose, delle corporation saranno le nuove frontiere degli investimenti finanziari globali. Di fronte a questo occorre chiedersi quanto la percezione di questo fenomeno sia diffusa, ma soprattutto quanto condivisa. E, nel secondo caso, quanto le aziende e i loro manager e azionisti siano preparati al cambiamento.

Dalla risposta che verrà data dipenderanno molte delle sorti non solo degli stakeholder attuali, ma delle future generazioni.