La Turchia ha l’obiettivo di diventare un ponte energetico tra i paesi produttori della regione mediorientale e il mercato europeo. Per raggiungere questo scopo, Ankara incentiva la costruzione di infrastrutture di trasporto energetico (gasdotti, oleodotti) sul suo territorio per approvvigionarsi dai paesi vicini, acquistando parte delle risorse in transito a prezzi convenienti. Tale scelta si spiega con la necessità di ricorrere alle importazioni dai paesi limitrofi per soddisfare la sua domanda di energia,  compresa quella di gas naturale, quest’ultima nel 2019 pari a 44,9 miliardi di metri cubi a fronte di una produzione interna di appena 473,8 milioni di metri cubi.

Si tratta di una condizione di dipendenza dalle importazioni di gas naturale che si protrarrà anche nei prossimi anni, nonostante la scoperta, la scorsa estate, di un giacimento di circa 320 miliardi di metri cubi nella zona del Mar Nero. Infatti, il gas rinvenuto - ipotizzando uno sfruttamento di 15-20 anni e un fabbisogno nazionale su livelli simili a quelli attuali, riuscirebbe a coprire circa il 20-30% del consumo interno.

Pertanto, per garantirsi le importazioni di gas naturale dai paesi vicini, la Turchia ha adottato una duplice strategia. Da una parte, ha scelto di reagire con durezza ai tentativi degli stati confinanti di escluderla dai progetti di sfruttamento e vendita delle risorse energetiche, dall’altra ha rafforzato le sue relazioni bilaterali con tre produttori: Russia, Azerbaigian, Iran.

La prima strategia è ben visibile nel Mediterraneo Orientale, dove i paesi rivieraschi (Cipro, Egitto, Grecia e Israele) hanno stipulato accordi regionali e pianificato progetti infrastrutturali che la escludono. In particolare, Ankara lamenta di non essere stata invitata a far parte del Forum del Gas del Mediterraneo Orientale (EMGF), che ha la funzione di regolare le dinamiche regionali di prezzo e produzione. Tale istituzione riunisce i rappresentanti dei paesi produttori (Cipro, Egitto e Israele) e le autorità governative che sono interessate ad acquistare il gas naturale da questi giacimenti (Grecia, Giordania, Italia, Autorità palestinese e, con tutta probabilità, nei prossimi mesi anche la Francia).

Questo spiega perché la Turchia consideri la costruzione di un gasdotto che unisce le aree produttive del Mediterraneo Orientale alla Grecia e quindi all’Italia come contraria al proprio interesse nazionale, puntando piuttosto alla realizzazione di corridoi energetici tra est ed ovest che insistono sul suo territorio per ragioni economiche e politiche. Da qui un’azione mirante ad impedire, in ogni modo, la realizzazione dell’infrastruttura,a il cui accordo è stato firmato lo scorso gennaio tra Cipro, Grecia e Israele, ma sulla cui realizzabilità sono stati avanzati molti dubbi, in ragione di un contesto di prezzi bassi del gas e degli alti costi di costruzione.

Sempre nell’area del Mediterraneo Orientale, poi, Ankara contesta le delimitazioni della zona economica esclusiva (ZEE) della Grecia, ossia l’area di mare in cui Atene potrà assegnare i contratti alle compagnie energetiche per lo sfruttamento delle risorse presenti nel fondale. In particolare, la Turchia non riconosce l’attuale estensione della ZEE greca, basata sulla convenzione delle Nazioni Unite (UNCLOS o Montego Bay), che include tutte le aree di mare comprese tra le sue isole egee e la terraferma. Ankara, al contrario, sostiene che alcune isole greche siano incluse nella sua piattaforma continentale e rivendica, perciò, una parte dell’area di mare esterna alle acque territoriali di queste isole come appartenente alla sua ZEE.

Per sostenere questa rivendicazione, ha firmato un accordo con il governo di Tripoli (GNA) nel dicembre 2019, che, da un lato, pone la linea di divisione tra le ZEE di questi due paesi in una zona di mare rivendicata dalla Grecia, dall’altro, consente alla Turchia di condurre potenzialmente delle esplorazioni per individuare il gas naturale nei fondali marini in un’area più vasta di mare. Se le esplorazioni avessero successo e fosse trovata una quantità, anche minima, di gas naturale, la Turchia potrebbe rivendicare la sua partecipazione all’EMGF come paese produttore. In tale scenario, un’esclusione di Ankara dal Forum sarebbe tacciata dal governo turco come una scelta motivata da ragioni di ostilità politica e non da criteri oggettivi. Infine, l’accordo con la Libia permette alla Turchia di ostacolare l’eventuale costruzione di un gasdotto verso la Grecia, in quanto gli garantirebbe la possibilità di avanzare pretesti legali, allungandone i tempi di realizzazione e quindi i costi.  

Quanto invece alle relazioni bilaterali, finora la Turchia ha perseguito una strategia di approvvigionamento basata su accordi di vendita con Russia, Azerbaigian e Iran, da cui cumulativamente nel 2019 ha importato circa il 72% del gas naturale (Russia: 33,61%, Azerbaigian: 22,20%, Iran: 17,11%).  Se da una parte, la scelta di dipendere da un gruppo ristretto di paesi consente alla Turchia di ottenere condizioni di acquisto vantaggiose grazie ad accordi pluriennali con prezzi fissi nel tempo, dall’altra presenta dei rischi.

Il paese, infatti, potrebbe trovarsi in poco tempo a dover rinunciare a parte del suo approvvigionamento energetico in caso di sanzioni Usa all’importazione di gas dall’Iran o di deterioramento delle relazioni con Russia e Iran o ancora, se, ancora, il conflitto in Nagorno-Karabakh renda impossibile il transito dal gasdotto Trans-Anatolico. Da qui la necessità di Ankara di diversificare maggiormente le proprie fonti di approvvigionamento, incrementando anche le importazioni di gas naturale liquefatto (GNL).

Nel contesto di forte instabilità in cui la Turchia si trova a operare, l’attuale politica estera di Ankara e la sua assertiva proiezione regionale rischiano di contraddire la sua ambizione di diventare un ponte energetico tra Medio Oriente ed Europa. Se il flusso di gas proveniente da Mosca, Baku e Teheran si dovesse ridurre, la Turchia potrebbe avere delle difficoltà di acquisto, a causa della sua politica aggressiva nel Mediterraneo Orientale. Un’alternativa per evitare questo scenario è di impegnarsi a migliorare le sue relazioni con alcuni paesi della regione, ad esempio Grecia, Egitto e Israele e implementare una politica estera diversa rispetto a quella attuale, che metta al centro degli obiettivi di Ankara un ruolo attivo per la risoluzione diplomatica delle diverse crisi regionali.