Dice l’Europa che (rispetto al 1990) entro il 2030 dovremo diminuire le nostre emissioni del 55% ed arrivare ad emissioni azzerate entro il 2050. Dice che per questo molto bisognerà investire e lancia per questo un European Green Deal. Che basti quello che prevede di investire, che i soldi si trovino e che gli investimenti siano canalizzati nella direzione giusta è agenda che ha già scatenato letteratura copiosa. Qui giusto qualche nota sul fossile e sulle difficoltà che il Green Deal (o equivalente) potrebbe incontrare.

Qualche numero per cominciare. Emissioni zero entro il 2050. In realtà, su scala mondiale, basterebbe qualcosa in meno. L’emissione è flusso che si fa stock e in modalità stock ha lunghezza di vita variabile. Per la CO2, convenzionalmente, possiamo assumere che campi cent’anni: che dunque esca ora dallo stock e si disperda l’emissione del 1920 e vada in modalità stock quella di quest’anno; che via coronavirus sarà un anno eccezionale e con emissione certamente inferiore al 2019. Ma per comparare dati “normali” le emissioni nel 1920 furono attorno a 3,5 miliardi di tonnellate e nel 2019 sopra le 36: 1 a 10. Insomma la certezza che, per quanto il coronavirus aiuti, nel 2020 lo stock di CO2 in atmosfera aumenterà di qualche decina di miliardi di tonnellate. Guardando poi al 2050, la “neutralità” rispetto allo stock esistente me la detta il dato 1950: 5,28 miliardi di tonnellate. Non è necessario arrivare ad emissione zero, però ci tocca di tagliare i 6/7 dell’emissione corrente.

Le fonti fossili oggi pesano per il 60% (o poco più) dell’emissione. E dunque se vogliamo diventare neutrali ci tocca tagliare altro; sicuramente gli allevamenti, soprattutto bovini (che da soli valgono più del 10% dell’emissione globale di CO2; ma anche oltre il 20% di quella di metano). Fare sparire il latte insieme al diesel. Non è programma col quale me la sentirei, in Padania e altrove, di vincere le elezioni. Se Green Deal ha da essere, l’obiettivo 2050 potrebbe avere qualche problema di legittimazione popolare.

Concentriamoci comunque sulle fossili. Nel 2018 rappresentavano ancora più dell’80% delle nostre fonti primarie (e nel 2019, aspettando conferma dal BP Statistical Review 2020, il dato non cambia). Direte che in Europa siamo maestri di virtù e dunque siamo piazzati molto meglio; però nel 2018 sempre di un 75% stiamo parlando (1263,4 Milioni di Tonnellate di Petrolio Equivalente-Mtep di fonti fossili rispetto ad un consumo totale di energia di 1688,2 Mtpe).  L’obiettivo diventa in pratica il pieno compimento in trent’anni di una transizione energetica. Un obiettivo “fossile zero”: qualcuno potrebbe obiettare che se riusciamo a stoccare ad libitum la CO2 liberata dalle fossili potremmo risolvere il problema senza transire, ma continuo a pensare che il contributo del sequestro di CO2 sarà al più marginale.

I problemi preliminari del “fossile zero”

Il primo problema è che nei processi industriali ad alta temperatura (acciaio, vetro, cemento…) senza le fossili non riesci ancora a produrre. Nel decennio a venire ci riuscirà forse di produrre alluminio senza emissioni; ma per il resto la strada è ancora lunga. Non vi illudano la ecofonderia in via di completamento in Austria o il futuro verde dell’Ilva. Ci sono lavorazioni realizzabili solo con il vecchio caro altoforno a fossile; ed il cambiamento non è per domattina. La Energy Transitions Commission ha ipotizzato che l’obiettivo emissione zero per le lavorazioni più energy intensive possa essere raggiunto, investendoci assai, per il 2060; ma nel 2060 e, appunto, investendoci assai. Poi per carità, siamo europei e lo European Green Deal è un obiettivo europeo, non globale. Basterebbe ripetere Kyoto, favorire il carbon leakage e perciò il trasferimento altrove di quel che resta della nostra industria pesante, e in punto di processi produttivi l’emissione europea zero si fa vicina. Delocalizzeremmo come nel dopo Kyoto la puzza, che è locale: ma non l’emissione, che è globale. Una partita di giro. Noi più virtuosi; un qualche asiatico che insiste nel peccato; e lo stock in atmosfera che ti aumenta uguale.

Secondo problema: la generazione elettrica. Che è quello sul quale siamo più virtuosi e preparati. Anche il 100% di generazione non fossile, tuttavia, non sarà qui per domattina. Hai un problema di spazio, o di densità di potenza o, se vogliamo citare i classici, di “terra”. Se non vai offshore e/o non dimostri con successo che il Sahara può essere il generatore elettrico d’Europa, ricoprire il suolo di pannelli o pale può riuscirti problematico. Alla complicazione spazio ti si aggiunge poi la complicazione intermittenza. Un sistema di accumulo efficiente ed economico ti cambia la vita; ma su scala di rete non è per domattina. Al nucleare il Deal sembra dire di no. E dunque della generazione fossile per tenere in equilibrio la rete non puoi fare a meno; e a tempo per ora indeterminato.

Terzo problema: i trasporti. Il petrolio, che per liquido e per densità energetica è da più di un secolo The Monarch of Motion, lo sostituiremo, si dice, con l’elettrico. Che speriamo non sia poi alimentato con generazione a lignite, perché piuttosto il motore a combustione interna teniamocelo stretto. Ed io sarei più tranquillo, anche rispetto alla diffusione futura, se la batteria potesse fare a meno di litio ed altri metalli più o meno rari (verrebbe da dire forza idrogeno, ma di nuovo non è per domattina). E anche qui il tempo della sostituzione ti pone un problema di stock esistente. Per andare elettrico non ti basta cambiare il serbatoio. Devi cambiare l’autovettura e comprartene una nuova. Non sarà istantaneo.

Infine (ma altro ci sarebbe): i costi. Un ammontare impressionante di investimenti (che in parallelo vuole dire meno disponibilità per i consumi). Un costo dell’energia almeno temporaneamente marginalmente più caro di quello fossile (per lo scaricarsi sul prezzo sia del costo dei permessi di emissione che di incentivi e sussidi) e che pure è sottratto ai consumi delle famiglie. Di fronte ad una potenziale compressione dei consumi o troviamo un modo socialmente equo di mettere in campo le risorse, o allontaniamo all’infinito la transizione alienandole consenso (i gilet gialli insegnano).

È difficile pensare in definitiva che questo decennio non sarà ancora fossil-dipendente; poi è possibile che la dipendenza si allenti e per successo di tecnologia abbia infine termine; ma non fosse che per ragioni anagrafiche mi è difficile immaginare che il mio tempo ne sarà testimone. Il dato aggregato, fino al 2019, ci dice peraltro che a fini di emissioni abbiamo storicamente avuto più benefici per unità di investimento dai programmi di efficienza energetica e dalla sostituzione interfossile che non dal rinnovabile che avanza. Abbiamo avuto sin qui più successo nel consumare meno (fossile) piuttosto che nel consumare altro; più successo nel sostituire il fossile sporco con fossile meno sporco (la generazione a carbone che si fa generazione a gas) che non nel sostituirlo con altro. Non sarebbe un male se il Green New Deal cominciasse, e anzi continuasse da qui.

Infine la domanda epocale: chi ce lo fa fare? Siamo già i più virtuosi e con il Green Deal acceleriamo ulteriormente sul gruppo. Con obiettivi e risultati di per loro non incompatibili con un aumento delle emissioni globali (basta un aumento della generazione a carbone in Asia per cancellare i potenziali benefici di quel che si fa in Europa).

Una spiegazione attraente potrebbe essere che investendo in anticipo stiamo investendo nello sviluppo di tecnologie proprietarie che ci daranno un vantaggio competitivo quando si renderà necessario diventare virtuosi anche altrove (il petrolio tra l’altro prima o poi finisce. O no?). Sarebbe sfida affascinante e anche nella sua difficoltà condivisibile. I tedeschi ci avevano già provato anni fa sussidiando il fotovoltaico per consolidare la leadership dell’industria nazionale. Poi però arrivarono i cinesi e li asfaltarono. Adesso magari ci riproviamo, e a tutto continente. Però se è così che almeno lo si dichiari, e ci si faccia vedere quanta ricerca e sviluppo si va con priorità a stanziare.

Altrimenti c’è il rischio che la comunicazione si faccia melassa, ed il consenso chimera. Sarà un caso, ma l’avanguardia politica della decarbonizzazione sembra avere in prima linea politici nominati (Ursula Von Leyden non consta di particolari zeli ambientalisti nella sua vita istituzionale precedente), ed in ultima linea politici eletti (il giorno stesso in cui il nominato Segretario Generale delle Nazioni Unite proclamava la fine dei sussidi ai combustibili fossili il nostro governo ritirava la proposta di abolirli). C’è il rischio di regalare una crociata contro la politica ambientale europea e di alimentare fiammelle separatiste.

La comunicazione della Commissione Europea non aiuta. Il Green Deal, ammette, non si può fare da soli, ma “l’Europa può usare la sua influenza, esperienza e risorse finanziarie per mobilitare altri Paesi”. I Paesi cruciali sono Cina e India, e che con le nostre risorse finanziarie si riesca a mobilitarli lascio a voi di commentare. Restano l’influenza e l’esperienza. Dato che siamo i più buoni imitate il nostro esempio, lasciatevi guidare e vi condurremo alla virtù.

Detta così c’è il rischio che il cinese pensi che noi pensiamo che lui non abbia letto Hobbes; e se lo pensa c’è il rischio che si incavoli pure.