Prima di esprimere una qualsiasi valutazione sugli esiti della Conferenza delle Parti (COP), la numero 25, tenutasi a Madrid dal 2 al 13 dicembre (ed oltre) con la partecipazione ufficiale di 197 delegazioni ed oltre 26.000 persone (quelle effettive erano molte di più), è opportuno tener conto del ruolo che a questo organismo le fu assegnato.

Le COP vengono istituite con l’United Nations Conference on Environment and Development (UNCED), l’Earth Summit tenutosi a Rio de Janeiro dal 2 al 14 giugno 1992 che porterà alla firma da parte di 154 Stati poi saliti a 197 del Trattato denominato “Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici” (UNFCCC) entrato in vigore il 21 marzo 1994. Come inizialmente stipulato non poneva limiti obbligatori e legalmente vincolanti ai singoli Stati per le emissioni di gas serra. Quel che fece scrivere al poi premio Nobel dell’economia (2018) William Nordhaus (con Joseph Boyer): “It soon became apparent that the voluntary approach under the FCCC was producing next to nothing in actual policy measures”. Come sarebbe poi avvenuto.

La Convenzione prevedeva però la possibilità che le parti firmatarie potessero adottare in apposite Conferenze annuali – appunto le Conferenze delle Parti – ulteriori atti che introducessero limiti obbligatori. Quel che accadrà l’11 dicembre 1997 alla COP 3 con la firma del Protocollo di Kyoto da parte di 180 Stati. La prima applicazione operativa della Convenzione Quadro entrata in vigore il 16 febbraio 2005. Il Protocollo introduceva due innovazioni nell’architettura della cooperazione internazionale.

La prima, d’ordine legale, era la fissazione di obiettivi vincolanti e sanzionabili di riduzione delle emissioni di anidride carbonica da parte dei paesi avanzati o in via di transizione. Chi l’avesse ratificato si impegnava a contenerle in percentuale differenziata, ma nel loro assieme del 5,2% rispetto all’anno base 1990, l’Unione Europea dell’8%. Ad ogni paese era data la possibilità di uscire dal Protocollo in tempi rapidi con semplice notifica alle Nazioni Unite.

La seconda innovazione, d’ordine economico, consisteva nell’introduzione di un sistema di scambi dei diritti di emissione Emission Trading Scheme (ETS) – che avrebbe dovuto permettere a governi e imprese di scambiare crediti e debiti emissivi e di fissare un prezzo del carbonio. Primo tentativo su vasta scala di introdurre meccanismi di mercato nelle politiche ambientali così da minimizzarne i costi.

L’attività delle successive COP si sarebbe in qualche modo sdoppiata: da un lato, nel dare contenuto operativo al Protocollo, quel che coinvolgeva i paesi che l’avevano sottoscritto; dall’altro lato, tentare di ricucire un consenso più vasto verso un’unanime cooperazione internazionale nella lotta ai cambiamenti climatici. A queste finalità se ne era aggiunta un’altra sostanzialmente estranea allo spirito iniziale delle COP: quello di una grande assise para-scientifica sui temi più disparati delle tematiche ambientali e climatiche, con una miriade di mini interventi, sessioni, conciliaboli con esiti che rimanevano nel chiuso dei loro partecipanti e che comunque non aggiungevano gran che a quel che l’IPCC non avesse già detto, ma semmai informavano sulle pratiche messe in campo da una miriade di soggetti.

Lo sforzo verso un’unanimità di consensi nella lotta ai cambiamenti climatici sembra raggiunge un esito positivo alla COP 15 di Copenhagen che si tradurrà invece in un flop gigantesco con la fuga di Obama dalla Conferenza. Obiettivo che invece viene raggiunto alla COP 21 con l’Accordo di Parigi del dicembre 2015. Da lì, le COP da un carattere sostanzialmente politico – come raggiungere un’intesa universale – prendono a interessarsi dell’operatività dell’Accordo su aspetti di carattere procedurale-burocratico che sarebbe meglio affrontare in un ristretto numero di tecnici che con decine di migliaia di delegati. Così è stato per la Cop22 di Marrakech, la Cop23 di Bonn, la Cop24 di Katowice che ha fissato un “Rulebook” per dare attuazione pratica all’Accordo che entrerà in vigore nel 2020.

Venendo a quella appena faticosamente terminata a Madrid, tre gli aspetti da rilevare. Primo: che di tutto si è parlato nelle riunioni assembleari tranne di ciò che sarebbe valso parlare: ovvero che le cose non vanno bene così che dopo-Parigi sono peggiorate, segno che gli Stati non hanno rispettato gli impegni presi, come testimoniato dai rapporti della WMO, UNEP, GCP. Secondo: che la transizione energetica non sta procedendo affatto, come pure si sostiene, col ruolo delle fonti fossili saldamente in testa e le politiche climatiche che stanno incontrando ostacoli soprattutto dal punto di vista sociale con le proteste delle popolazioni a basso reddito che ne sono più colpite. L’idea di fissare regole per introdurre “market based mechanism”, come una carbon tax e carbon trading, in base all’articolo 6 dell’Accordo, per facilitare la decarbonizzazione minimizzandone il costo, non poteva che incontrare dure opposizioni. Terzo: che anziché capire le ragioni che impediscono di raggiungere gli obiettivi già fissati, a Madrid non si è trovato di meglio che dividersi se innalzarli o meno, tra chi è totalmente riluttante a farlo e chi, Unione Europea in testa, vorrebbe sin d’ora fissare obiettivi ancor più ambiziosi.

Non è esagerato dire che a Madrid ci si è divisi su tutto – dalle questioni procedurali a quelle politiche – non riuscendo le 197 delegazioni a raggiungere una qualsiasi intesa entro il termine previsto del 13 dicembre così confermando l’inutilità di queste kermesse infarcite delle solite (false) promesse dei leader mondiali (invero pochissimi a Madrid); degli appelli accorati dei responsabili delle Nazioni Unite; delle proteste dei movimenti ambientalisti. Senza riuscire in questo bailamme a fare anche un piccolo passo in avanti, nello sconcerto delle opinioni pubbliche chiamate a pagare il costo del fallimento della politica.