Quanti titoli di giornale abbiamo visto sul fallimento della COP25 di Madrid? Quanti telegiornali hanno aperto annunciando che degli 11 anni rimanenti per agire oramai ne rimangono solo 8, e ne abbiamo appena buttato un altro? Quante persone sanno che i clatrati di metano presenti in Siberia che potrebbero liberarsi rappresentano una sorta di bomba atomica essendo il metano un gas serra 72 volte più potente della CO2? O che al 2100 pressoché tutti i ghiacciai sulle Alpi potrebbero essere scomparsi? E che lo scioglimento dei ghiacciai tra Groenlandia e Antartico porterà al 2050 circa 1 miliardo di persone a fronteggiare annualmente degli allagamenti? Quanti di noi hanno mai sentito parlare del Carbon Budget che ci rimane da emettere prima di sfondare la soglia delle 450 ppm di CO2 in atmosfera? Ogni volta che ci chiediamo perché la gente non sia in piazza o nelle strade in preda al panico, dovremmo porci queste domande. E quindi la domanda delle domande:
Quanta gente ha realmente consapevolezza dei gravi rischi a cui stiamo andando incontro a causa di questo clima che è già cambiato - ma che speriamo di riuscire a mitigare almeno parzialmente?
C’è chi sostiene che si tratti di temi complicati. Che il dibattito dovrebbe essere riservato ai climatologi e agli esperti. Che sia normale che la stampa e le TV preferiscano dare spazio a tematiche più accessibili.
Eppure non è così complesso: stiamo emettendo gas serra da decenni, aumentati esponenzialmente da quando tutte le nazioni vogliono raggiungere lo standard di vita dei paesi sviluppati - o anche solo uscire dalla povertà. Il che significa che paesi come l’India che oggi emettono 2 ton CO2/anno per persona puntano a produrne 8-9 ton CO2/anno a persona (Europa) o addirittura 17-18 ton CO2/anno (USA-Canada).
Tra l’altro sappiamo anche quali soluzioni dovremmo implementare per evitare l’aumento di queste emissioni. E, colpo di scena, la stragrande maggioranza di queste soluzioni abbatte anche tante forme di inquinamento che uccidono decine di migliaia di persone in tutto il mondo. Addirittura, moltissime di queste soluzioni consentirebbero di ridurre le disuguaglianze nel mondo favorendo allo stesso tempo uno stile di vita più salubre e contemporaneamente più sostenibile.
Sappiamo anche che questa transizione non sarà a costo zero. Ma che tale costo non avrà nulla a che vedere con i costi che provocherà (e che sta già provocando) la crisi climatica in atto. Costi difficili da quantificare perché è difficile quantificare il valore di Venezia, della Florida, degli orsi polari, o…della birra: l’orzo sarà infatti tra le coltivazioni più colpite dalla variazione delle fasce climatiche, con un aumento potenziale del prezzo di una birra a Dublino stimato da Nature Plants fino a +338%.
Eppure, quando arriva una persona in ospedale, alle due di notte, in stato comatoso, si mette in allerta l’intera struttura, si chiama un rianimatore, si reperisce il chirurgo, si fanno tutti gli esami del caso e si somministrano tutti i farmaci necessari. A nessuno in sala operatoria passa nemmeno per l’anticamera del cervello il quesito “Capisco che bisogna salvarlo, ma quanto ci costerà tutto questo? Possiamo permettercelo?”.
Appena si parla di spendere davvero dei soldi o fare investimenti – che significa spenderne ora per spenderne di meno in futuro, o addirittura per guadagnarci - ecco che crolla tutto. Perché è complesso (e questo sì, lo è davvero) far passare il messaggio che sia necessario. Non è bello, o divertente o semplice agire. E’ semplicemente imprescindibile per limitare il più possibile i disastri e le “indicibili sofferenze” (citando l’appello sottoscritto da 11.000 scienziati e pubblicato sulla rivista Bioscience) a cui stiamo andando incontro senza remora.
E’ in tale contesto di urgenza che si inseriscono le Conferenze delle Parti (COP), ovvero momenti a cadenza annuale in cui Governi di tutto il mondo si incontrano per trovare strade e criteri comuni per affrontare la crisi climatica. Queste ultime si configurano come unico momento in cui affrontare coralmente a livello internazionale una problematica con connotati trans-nazionali. Nessuna nazione, da sola, può fare qualcosa. Tutto il mondo deve agire, con metodologie e obiettivi comuni.
Storicamente, tutte le COP svolte dal 1995 ad oggi sono risultate fallimentari (compresa la COP 25, conclusa pochi giorni fa). Tra queste, le due COP che più hanno alimentato l’interesse mediatico sono senz’altro la COP 3 di Kyoto (1997) e la COP 21 di Parigi (2015). Entrambe infatti, condividono il triste destino di essere state inquadrate come possibili COP di svolta nella battaglia ai cambiamenti climatici, salvo poi fallire miseramente nei loro obiettivi.
Mentre le difficoltà della COP di Parigi si possono riassumere nei termini scelti - “obiettivi non sufficientemente ambiziosi” e “non vincolanti, in cui ogni Stato poteva rispettare o meno gli impegni presi senza alcuna ripercussione giuridica e/o economica” - vale la pena porre il focus sulla COP di Kyoto, e in particolare sul fenomeno del “carbon leakage”, definito anche “il colonialismo del carbonio”. A Kyoto infatti, i paesi erano suddivisi in categorie, e non a tutti spettava l’onere (e l’onore) di ridurre le proprie emissioni. A causa di questa differenza, avvenne che l’abbattimento delle emissioni di CO2 dei paesi obbligati a ridurle fu accompagnato da un aumento di emissioni in altre giurisdizioni in cui questi vincoli erano nulli o meno stringenti. In altre parole, molti Stati videro diminuire le proprie emissioni, ma allo stesso tempo aumentarono l’ammontare delle emissioni insito nelle loro importazioni. Non avevano diminuito le loro emissioni, le avevano solo spostate!
Questo fenomeno è di particolare rilevanza poiché mentre da una parte fa comprendere l’importanza di un’azione globale, in cui tutti gli Stati prendono una strada comune, dall’altra anticipa una delle più grandi problematiche delle COP successive: rispecchiare, attraverso le opportune contabilizzazioni, le reali responsabilità degli Stati del mondo.
Ed è qui che si inserisce una delle principali rivendicazioni condivise da tutti gli attivisti di Fridays For Future: contabilizzare le emissioni secondo il principio consumption based (e non production), per eliminare la possibilità di manovre maliziose degli Stati che non potrebbero più dislocare le proprie emissioni per sembrare più virtuosi. E’ molto semplice affermare che Cina e India (in primis, ma non solo) siano tra i principali emettitori mondiali. Ma più intelligente, e soprattutto più realistico, sarebbe considerare i loro consumi (in termini di emissioni di gas serra) rispetto ai consumi dell’UE, dell’America e di altri stati sviluppati. Ne emergerebbe un quadro di gran lunga diverso.
Questo, unito ad una contabilizzazione pro-capite e ad impegni volti a tagliare le emissioni in modo proporzionale alle responsabilità storiche dei singoli Stati, aiuterebbe senz’altro la collaborazione all’interno delle COP. Dopotutto, si chiederebbe soltanto che ognuno emergesse per le sue reali responsabilità, senza nascondersi dietro a trucchi contabili.
Altra rivendicazione fondamentale di Fridays For Future Italia rivolta al Governo è che l’Italia riduca a 0 le emissioni di gas serra entro e non oltre il 2030. L’UE dovrebbe porsi lo stesso obiettivo al 2035, ponendosi come leader nella battaglia all’emergenza climatica. Tali obiettivi, inseriti nel contesto delle future COP, potrebbero configurarsi come esempi da seguire per gli Stati partecipanti, portando tante altre nazioni a convincersi per politiche decise e radicali.
Inoltre, l’intera transizione energetica dovrà avvenire nel rispetto della giustizia climatica, ovvero proteggendo le fasce più povere della popolazione. La massima “chi inquina paga” (principio già presente nell’ordinamento europeo e italiano) dovrebbe essere alla base di qualsiasi accordo internazionale.
Il tempo stringe, e gli anni che ci rimangono per invertire la rotta non sono più 11, come ricordavamo pochi mesi fa nelle piazze. Ora ne mancano 8 o 9, di anni. Non è più il momento di rimandare. E’ il momento che la politica e le grandi compagnie energetiche si prendano le proprie responsabilità.
Tutto ciò non è avvenuto in quest’ultima COP, la COP 25 di Madrid, una delle COP con maggiore attenzione mediatica. Gran parte delle decisioni sono state ancora una volta rimandate, a causa dei veti incrociati da parte di Brasile, Russia, Australia, India, Cina. E Stati Uniti, che nonostante il disimpegno prossimo, sullo sfondo provavano a bloccare i risarcimenti dovuti dagli stati più inquinanti agli stati che più di tutti stanno già subendo allagamenti ed eventi catastrofici.
Quasi tutto rimandato al prossimo meeting, la COP 26, la cui organizzazione sarà divisa tra Italia e Scozia. A nulla sono serviti i due giorni aggiuntivi di lavori per snodare le difficoltà intorno all’articolo 6, ovvero l’articolo che dovrebbe regolare un mercato globale del carbonio, ritenuto determinante per conciliare l’obiettivo di contrasto ai cambiamenti climatici con le difficoltà sociali ed economiche che la transizione potrebbe portare con sé, rendendo quest’ultima il meno costosa possibile.
Nonostante ciò, gli ultimi mesi di proteste hanno fatto sì che milioni di persone in più diventassero consapevoli di questa crisi, e forse senza queste mobilitazioni nemmeno azioni come il "Green New Deal" europeo e qualche altra iniziativa in ambito internazionale sarebbero state intraprese. Passi avanti, seppure ancora non sufficienti.
Insomma, la partita è ancora aperta, ma questo indugiare sta diventando davvero una roulette russa. Il prossimo anno, durante la COP 26, ci giocheremo gran parte del nostro futuro.
Ora più che mai, dobbiamo far sentire la nostra voce.