Appena conclusa la COP 25 di Madrid l’impressione è che rispetto a Parigi si siano compiuti dei passi indietro e che esista un gap enorme tra le retoriche dichiarazioni dei leader del mondo e i risultati ottenuti.

Non parlerei di passo indietro, ma una situazione di stallo, come era d’altronde largamente previsto. L’accordo di Parigi entrerà in vigore dal 2020 ed è nel 2020 che il gioco comincia e si inizieranno a verificare gli impegni dei governi. Le COP importanti saranno le prossime due. Molti paesi stanno mettendo a punto ora le misure per realizzare gli impegni presi a Parigi e la prima verifica è prevista nel 2023.

Gli Stati Uniti il 4 novembre 2019 hanno formalmente notificato alle Nazioni Unite la decisione di uscire dall’Accordo di Parigi. La Cina, secondo quanto riportato dal Financial Times, ha ripreso la costruzione di centrali a carbone per una potenza di 148.000 MWE, pari all’intera potenza delle centrali a carbone d’Europa. Quanto pensa funga da deterrente per gli altri Stati sapere che i colossi mondiali sono così poco sensibili alla questione climatica?

La situazione in realtà non è così negativa. Gli Stati Uniti si sono ritirati dall’accordo di Parigi, ma molto probabilmente raggiungeranno ugualmente l’obiettivo previsto. Molte decisioni di riduzione delle emissioni non dipendono infatti dal livello federale ma da quello statale, dalle città, dalle singole imprese. La Cina ha ripreso il carbone, ma allo stesso tempo ha siglato un accordo importante con la Russia per la fornitura di gas e dal prossimo anno sarà attivo un sistema di permessi di emissione simile a quello europeo. Con un cap alle emissioni ben definito. La Cina si proporrà come leader nella riduzione delle emissioni. Soprattutto per ragioni politiche interne al paese.

Stando così le cose, ritiene che sia ancora possibile allinearsi all’obiettivo di Parigi di contenere la temperatura globale al di sotto dei 2°C? Se sì, quale potrebbe essere a questo punto la vera chiave di volta?  

Era e rimane un obiettivo molto difficile, indipendentemente dalle poche novità, positive e negative, di questi ultimi mesi. La chiave di volta è l’innovazione tecnologica. Faccio due esempi. Se disporremo di tecnologie in grado di immagazzinare su grande scala l’energia prodotta con le rinnovabili, allora sarà possibile che progressivamente il processo di elettrificazione di tutti i settori ci porti ad azzerare il flusso di emissioni. Ma non basterà. Dovremo comunque eliminare una parte dello stock di emissioni prodotte nel passato. E anche qui ci serve nuova tecnologia, anche questa oggi non disponibile su una scala adeguata, per rimuovere CO2 dall’atmosfera. Di nuovo serve innovazione. E’ quindi necessario partire da un grande investimento in ricerca e sviluppo delle tecnologie decisive e indispensabili per poter ridurre in modo drastico le concentrazioni di gas serra in atmosfera.

Quale è il peso della finanza nel processo di transizione verso un'economia sostenibile? Cosa è stato già fatto e cosa bisogna ancora fare?

La finanza ha un ruolo decisivo. Sappiamo che i costi della transizione verso una società a basse emissioni di carbonio saranno tutto sommato limitati. Oggi la tecnologia mette a disposizione soluzioni e processi che sono economicamente competitivi e permettono di sostituire rapidamente le tecnologie energeticamente poco efficienti e/o basate sui combustibili fossili. Per realizzare questa sostituzione/transizione servono però rilevanti investimenti. Le ultime stime (IPCC e Morgan Stanley) ci dicono circa 1.500 miliardi all’anno. La finanza svolge quindi un ruolo importante nel mettere a disposizione le risorse per concretizzare questi investimenti. Oggi queste risorse sono disponibili per circa 500 miliardi all’anno (stime OCSE). C’è quindi ancora un gap importante da coprire, ma le istituzioni finanziarie, soprattutto private, hanno capito che è conveniente e si stanno mobilitando. Più lenta è invece l’azione dei governi.

Nel 2022 uscirà il nuovo rapporto IPCC sul clima, dopo quello dell’ottobre 2018. In quell’occasione, il rapporto dovrà essere votato dagli Stati, e quando l'avranno approvato, verrà adottato da tutti. Perché si è ritenuto necessario ricorrere alla votazione di un rapporto scientifico?          

Non viene votato il rapporto, ma solo la sua sintesi per i policymakers. Ed è un passo importante, perché quel voto, fino ad oggi, dagli inizi degli anni 90, sempre unanime, significa che gli Stati condividono le conclusioni del rapporto e le adottano come base delle proprie decisioni di policy. E’ la forza, l’elemento distintivo, dei rapporti scientifici dell’IPCC, rispetto a qualsiasi altro rapporto scientifico che non ha l‘endorsement dei governi.