Povertà energetica e clima: due facce della stessa medaglia, quella della sostenibilità. Dalla pubblicazione del Rapporto Brundtland in poi, la sostenibilità è stata interpretata come un concetto basato su due equità: quella inter-generazionale, ovvero la protezione del pianeta nel tempo, e quella intra-generazionale, ovvero la giustizia all’interno della stessa generazione, lo sradicamento della povertà, anche di quella energetica ovviamente.  Nonostante si tenda spesso a enfatizzare la dimensione ambientale intergenerazionale - e a rimuovere quella di giustizia etica riferita alla medesima generazione - la sostenibilità ha bisogno di entrambe. Essa è come un uccello che per volare ha bisogno di due ali: non è possibile una sostenibilità declinata solo lungo la linea interpretativa della salvaguardia del benessere delle future generazioni. Con una sola ala, l’uccello non può volare.

Di qui la straordinaria importanza della rimozione della povertà energetica. Circa un miliardo di persone senza accesso all’elettricità e ben 2,7 miliardi di persone senza accesso a forme di cucina moderne e pulite significa assenza di sostenibilità. Pertanto è imprescindibile portare l’energia a tali popolazioni. Le stime dicono che ciò è possibile e sta già avvenendo, sebbene non a ritmi celeri. Secondo la IEA nel 2030 il numero delle persone senza elettricità dovrebbe scendere intorno ai 650 milioni, mentre le persone che faranno ancora uso di biomassa per cucinare saranno 2,2 miliardi. Non è la perfezione, certo, ma è comunque un passo nella giusta direzione. E’ indubbio, ad ogni modo, che occorre fare di più sradicando totalmente la povertà energetica.

Ma ciò pone la questione della coesistenza dei due obiettivi, che altro non è che un pezzo della problematica più ampia della coerenza tra equità inter-generazionale ed equità intra-generazionale. E’ possibile raggiungerle entrambe? Se oltre un miliardo di persone comincia a consumare energia non avrà questo un impatto negativo sulle emissioni, e dunque sul clima? Il perseguimento dell’equità intra-generazionale non avrà - attraverso la crescita dell’economia, della domanda di energia e delle emissioni - un influsso negativo su quella inter-generazionale?Il famoso articolo di Richard Baldwin “Does sustainability require growth?” - famoso al punto da essere oggi confluito in alcuni libri di testo di environmental economics - mostra come la sfida della sostenibilità sia proprio questa, far coesistere le due equità: eliminare la povertà, anche energetica, senza far crescere le emissioni, favorire la crescita economica senza perdere il pianeta. E’ questo il nocciolo del problema, e la soluzione non è affatto semplice, nonostante l’ottimismo reiterato dai fautori della complementarità tra crescita economica e protezione dell’ambiente. Ciò non vuol dire che il problema non abbia soluzione, quanto piuttosto che l’impresa è assai complessa.

Ora, i recenti studi sul nesso povertà energetica-clima sottolineano come non vi sia un trade-off, ovvero la crescita dei consumi energetici derivante dall’eliminazione dei problemi di energy access non aggrava la questione climatica. Nell’ “Energy Access Outlook 2017della IEA si afferma che portare l’energia a tutti gli abitanti del pianeta entro il 2030 implicherebbe una crescita di soli 37 Mtoe, un incremento della domanda di energia pari ad appena lo 0,23%, ovvero ai consumi energetici effettuati negli Stati Uniti in una settimana. Tale basso incremento, coniugato con il ruolo chiave che le rinnovabili hanno nella generazione di offerta di energia addizionale, darebbe luogo a un aumento di sole 73 Mton CO2, ovvero lo 0,2%. A conclusioni analoghe perviene un articolo di Shoibal Chakravarty e Massimo Tavoni pubblicato su Energy Economics nel 2013. Il titolo della pubblicazione è assai eloquente “Energy poverty alleviation and climate change mitigation: is there a trade off?” e la risposta è secca: no, non esiste un trade-off poiché   l’incremento di consumo energetico sarebbe pari solo al 7% nel 2030 e l’incremento di emissioni compreso nel range 44-183 Gt.CO2 nell’intero 21° secolo, spingendo la crescita della temperatura di soli 0,13 °C. Come si può vedere i numeri dei due studi sono diversi - più elevati quelli del secondo - ma la conclusione analoga. Infine, citiamo un terzo studio di Klaus Hubaceck et al – “Poverty eradication in a carbon constrained world”, Nature Communication 2017 – che giunge a conclusioni assai simili: sradicare la povertà energetica non è un problema perché le emissioni non crescono più di tanto.

Sarà davvero come dicono gli studi? Nella ricerca di una risposta vengono subito in mente un paio di aforismi. Il “certo, certissimo, anzi probabile” di Flaiano e “lo statistico è uno che fa un calcolo giusto partendo da premesse dubbie per arrivare a un risultato sbagliato” del francese Jean Delacour. Ci permettiamo di fare queste citazioni non per denigrare gli studi e i modelli matematici: tutt’altro, siamo grandi ammiratori del numero. D’altra parte, le due frasi e altre assai gustose possono essere rinvenute in un sito incentrato sui numeri, ovvero quello del nostro Istituto Nazionale di Statistica che fa dell’autoironia addirittura sulla sua stessa causa efficiente.

Ciò che intendiamo dire è che i numeri citati mostrano una possibilità, concreta certo, ma sotto determinate condizioni. C’è qualcosa che non è detto - o che, come spesso accade negli studi, viene detto in forma depotenziata - che è altrettanto importante della conclusione, e forse di più. Per dirla ancora in forma aforistica - confidiamo che lo scudo protettivo del sito dell’Istat ci salvi ancora una volta - “le statistiche sono come i bikini. Ciò che rivelano è suggestivo, ma ciò che nascondono è più importante” (Aaron Levenstein).

Per farla breve, ciò che viene nascosto sono tre assunzioni cruciali: a) la crescita del reddito pro-capite dei paesi senza energia è minima; b) l’elasticità della domanda di energia al reddito è bassa; c) l’elasticità delle emissioni alla domanda di energia anch’essa bassa. In sostanza, ipotesi ad hoc depotenziano la catena causale che porta dal reddito alle emissioni e, in tal modo, ridimensionano l’impatto sul clima. Sul punto a), ad esempio, il citato articolo di Hubaceck et al mostra come non vi sia impatto sul clima se si fa crescere il reddito pro-capite dei poverissimi fino a 1,9$ al giorno, mentre una crescita più sostenuta che porti il reddito pro-capite nel range 2,97-8,44 $/giorno implichi sensibili incrementi di emissione e la necessità di elevare i tassi di mitigazione delle stesse del 27%. Sul punto b) Chakravarty e Tavoni segnalano come “the robustness of the income-energy elasticity is not without some variance”. Infine, sul punto c), il report della IEA sottolinea come l’espansione della domanda di elettricità associata allo scenario Energy for All sia soddisfatta dalle fonti fossili soLo per il 30%, laddove oggi lo è nella misura del 65%, con il carbone che da solo copre il 38%.

In sintesi, tutto dipende da come si declina la crescita economica e quella della domanda di energia. E’ chiaro che se una persona è tenuta a pane e acqua, seppure quel pane fosse cotto con un forno elettrico, l’impatto sulle emissioni sarebbe minimo. Ma se quella stessa persona cambiasse la sua dieta, soprattutto quella sociale, e cominciasse a possedere una casa e un’automobile e a spostarsi molto, addirittura in aereo, l’impatto sulle emissioni e sul clima sarebbe tremendo. La questione chiave è se le popolazioni indigenti di oggi saranno, domani - come tutti ci auguriamo - classe media. Citiamo, ancora una volta, lo studio di Chakravarty e Tavoni e le loro illuminanti parole: “the real question is whether energy poverty alleviation and pro-poor growth policies will lead to significantly faster rise in the growth of middle classes and their substantially higher consumption and associated emissions”. A tale proposito ci sembra interessante proporre qui un grafico tratto dal modello C-Roads del MIT di Boston che mostra come, in uno scenario business as usual, più dei paesi ricchi - e sorprendentemente, più della Cina e dell’India - contano gli “other developing countries” la cui crescita demografica ed economica può avere impatto devastante sulle emissioni. Tale scenario di crescita incontrastata della CO2 condurrebbe a un incremento della temperatura di 4,2 °C.

Emissioni di CO2 derivanti dal comparto energia

Fonte: C-Roads World Climate

L’ideale sarebbe che i paesi poveri saltassero direttamente sulla traiettoria tecnologica più avanzata, evitando forme di energia a elevato impatto ambientale, tagliando così alla radice il nesso crescita economica-emissioni. Si può fare? La risposta è sempre la stessa: dipende. Dipende da come agiremo e, soprattutto, se agiremo, perché questa è la questione critica per il genere umano, oggi ipnotizzato davanti a una catastrofe potenziale che egli stesso, quotidianamente, alimenta. A tal proposito - e con ciò chiudiamo l’articolo – citiamo l’interessante scambio di vedute proposto nel famoso documentario “Before the flood”, tra Leonardo Di Caprio e l’ambientalista indiana Sunita Narain. All’osservazione dell’attore secondo il quale occorrerebbe investire in energie alternative, Narain replica: “E’ facile dire “i paesi poveri dovrebbero passare al solare”, oppure “perché dovete commettere i nostri stessi errori?”. E’ un ritornello ripetuto da tutti gli ingegneri americani, e ogni volta penso: se fosse davvero facile come dite, voi l’avreste già fatto. Ma non è così, quindi predicate bene e razzolate male”. Risposta di Di Caprio: “Dovremmo agire invece di parlare, assolutamente”. Come non dare ragione a un divo di Hollywood?

Nota: Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non vanno ascritte all’azienda nella quale egli lavora.