Anche quest’anno la BP ha pubblicato il suo storico Rapporto sull’Energia nel Mondo. La lettura dei dati mette in evidenza verità note, ma spesso ignorate dall’ambientalismo di maniera.

È interessante che la relazione di Spencer Dale, capo economista della BP, si apra con un grafico che mostra la correlazione diretta fra la crescita della domanda energetica mondiale e l’aumento delle emissioni di CO2. Ed è ancora più significativo vedere la distribuzione geografica di tale crescita:

Distribuzione Crescita Energia ed Emissioni CO2

Fonte: BP Statistical Review 2019

Da questi dati emerge con chiarezza che il problema della criticità delle emissioni di CO2 è un problema al di fuori del controllo europeo (figurarsi italiano), e che, anche se la battaglia per un’ulteriore riduzione delle fonti fossili fosse portata avanti fino a limiti non realistici e non praticabili (abolizione totale delle fonti fossili) solo in Europa, il risultato, a livello planetario, sarebbe quasi nullo. Eppure, è proprio in Europa che il dibattito si è rivestito di connotati ideologici fortemente accentuati.

Entrando nell’analisi dei numeri si può vedere meglio la portata del problema che abbiamo davanti. Il consumo annuo di energia primaria complessivo a livello mondiale ha raggiunto il livello di quasi 14 miliardi di TEP (tonnellate equivalenti di petrolio) con una crescita in 10 anni di oltre 21 miliardi di TEP, pari ad una crescita media annua dell’1,5%. Una crescita che sembra inarrestabile e che tende ad accelerare. Questi 14 miliardi di domanda, in termini di energia primaria, sono così ricoperti dalle varie fonti:

Domanda di energia primaria per fonte

Fonte: BP Statistical Review 2019

Le fonti fossili continuano a rappresentare circa l’85% della domanda primaria di energia nel mondo. Nucleare ed idroelettrico coprono l’11,3% e le rinnovabili meno del 5%, nonostante il forte incentivo che sia stato dato negli ultimi anni da almeno 20 paesi industrializzati.

In particolare, si riconferma il ruolo fondamentale del carbone per i paesi asiatici, mentre il petrolio resta sempre più finalizzato - oltre che ad alimentare la petrolchimica - alla copertura della domanda per i trasporti e risulta abbastanza distribuito fra le varie aree del mondo.

Per quanto riguarda il petrolio, inoltre, si notano alcuni elementi preoccupanti:

  1. Una capacità di raffinazione installata teorica (che comprende anche le raffinerie esistenti ma ferme da tempo) di circa 100 milioni di bbl/g, ovvero, almeno sulla carta, stechiometricamente in linea con il livello odierno della produzione mondiale di greggio. Il che vuol dire che, persino i normali e periodici piani di manutenzione degli impianti mettono puntualmente a rischio i flussi di approvvigionamenti dei prodotti finiti sui mercati.
  2. Durante il 2018, l’output del sistema di raffinazione mondiale in termini di prodotti è stato pari a 83 milioni di b/g, decisamente al di sotto del livello dei consumi correnti.
  3. Il livello dei consumi petroliferi del 2018 è stato pari 99.8 mln di b/g, ovvero circa 17 mln di b/g al di sopra dell’offerta di prodotti finiti ottenuti nel sistema di raffinazione mondiale. Anche se non se parla abbastanza, dobbiamo essere consapevoli che, già oggi, in tanti paesi fare il pieno di benzina o rifornire gli aerei di carburanti non è un’operazione garantita.

Si conferma come, ai livelli di domanda intorno a 100 milioni di barili/giorno, si stia manifestando un ritardo nel ritmo degli investimenti nel settore petrolifero sia per quanto riguarda l’upstream che nel settore industriale della raffinazione.

Il clima di incertezza che ha dominato il mercato petrolifero a causa della variabilità dei prezzi e delle restrizioni dovute alle legislazioni ambientali degli ultimi anni, ha certamente determinato questo rallentamento degli investimenti, riducendo la potenzialità dei flussi di approvvigionamento a livello globale.

Questa crisi dei sistemi di raffinazione è messa in evidenza anche dai flussi di trading di prodotti petroliferi fra le diverse aree del mondo. Sempre più di frequente, infatti, per approvvigionare di prodotti i principali mercati del mondo, occorre trasferire prodotti e semilavorati da aree di raffinazione ad altre. Negli ultimi anni i flussi di trading di prodotti e semilavorati sono aumentati di circa 15 milioni di bbl/g. Senza questi movimenti, molti paesi industrializzati (tra cui Stati Uniti ed Europa) non potrebbero disporre di benzine a norma o di jet fuel per i trasporti aerei.

È interessante anche il dato sul consumo di energia pro capite, perché ci fornisce un’indicazione sul potenziale futuro di crescita della domanda e sugli interventi possibili per puntare al miglioramento dell’impatto emissivo dovuto ai consumi energetici.

Consumo di energia pro-capite

Fonte: BP Statistical Review 2019

I dati mostrano chiaramente la disomogeneità nella distribuzione geografica della domanda a livello mondiale, che raffigura plasticamente come esistano da un lato potenziali enormi di risparmi ed efficienza energetica in alcune realtà (USA, CIS) e dall’altra parte spinte enormi ed inarrestabili per la sua crescita in Asia ed in Africa.

Con queste premesse, e a partire da questi dati, le speranze di ridurre le emissioni a livello globale rischiano di restare a lungo dei desideri inattuabili. A meno di non ridefinire ex-novo gli obiettivi e gli strumenti per intervenire sul problema.

Anzitutto occorre ribadire che, anche con le innovazioni possibili, il petrolio resterà il prodotto energetico fondamentale per garantire i trasporti. Le proiezioni al 2040, sempre a livello mondiale, mostrano che gli spazi di crescita per veicoli elettrici, a gas o altro, resteranno marginali.

La domanda di petrolio per i trasporti continuerà ad essere forte ed insostituibile. L’incidenza del petrolio diminuirà in questo settore dall’attuale valore di 94% a 85% nel 2040, cedendo una quota inferiore al 10% ad elettrico, gas, idrogeno e biocombustibile. A questa riduzione in termini percentuali sul totale corrisponderà, tuttavia, un aumento della domanda in valore assoluto di almeno 4 mln di b/g.

In questo quadro, se i paesi industrializzati volessero realmente e realisticamente dare un contributo determinante all’abbattimento delle emissioni in quantità significative e misurabili, dovrebbero favorire investimenti che consentano un uso diverso delle fonti fossili attraverso tecnologie già esistenti ma utilizzate marginalmente.

Mi riferisco in particolare ad una riconversione del sistema di raffinazione mondiale esistente integrando le tecnologie classiche con quelle del Gas to Liquid (GTL) e quelle della produzione del bioetanolo di seconda generazione (combustibili ottenuti da vegetali non-alimentari coltivati su terreni marginali).

L’introduzione di queste tecnologie potrà essere sviluppata essenzialmente dalle compagnie petrolifere integrate, le sole che sono in grado di gestire insieme ricerca scientifica e tecnologica con investimenti industriali su larga scala. È infatti fondamentale che gli impianti innovativi vengano realizzati all’interno delle raffinerie petrolifere esistenti e che si proceda all’integrazione ed alla sinergia complessiva tecnologica ed energetica.

Anziché concentrare gli sforzi esclusivamente su una politica di incentivazione di risorse rinnovabili marginali occorrerebbe un piano industriale per un massiccio miglioramento della qualità dei combustibili in grado di produrre un abbattimento significativo delle emissioni.

Ovviamente, questo non avverrà se proseguirà un clima di demonizzazione delle “multinazionali” cedendo alla sempre potente domanda di fondi pubblici verso corporazioni che si muovono in ambiti angusti e provinciali.