La domanda mondiale di energia continua a crescere: negli ultimi dieci anni i consumi primari sono aumentati del 17% (+1,6% in media annua) e il trend di incremento proseguirà anche negli anni a venire. Se da un lato il contributo delle energie rinnovabili sarà via via più importante, dall’altro le fonti fossili tradizionali manterranno un ruolo di primo piano nel mix energetico mondiale: secondo l’ultimo World Energy Outlook dell’AIE, la quota di queste ultime sarà ancora prossima al 75% al 2040, con un peso crescente del gas naturale, destinato ad accompagnare la transizione energetica.
In un siffatto contesto, attori relativamente nuovi al mondo all’energia – come Tanzania, Mozambico e più recentemente Somalia - si apprestano a diventare protagonisti grazie a significative scoperte di petrolio, gas naturale e altre risorse minerarie. In questi paesi, il ritrovamento di importanti riserve di idrocarburi è foriero di grandi aspettative in termini di crescita economica duratura e di positive ricadute sull’economia locale. I governi e i cittadini dei paesi emergenti, quindi, vorrebbero integrare il mercato dell’energia nel tessuto economico dei paesi e delle regioni in cui i progetti vengono realizzati, in modo che rappresentino un volano di crescita e in particolare di creazione di posti di lavoro. Creare lavoro è prioritario in tutta l’Africa Sub-Sahariana (SSA), viste le proiezioni demografiche: in quest’area la popolazione è destinata a raddoppiarsi in poco più di 30 anni (da 1 miliardo di persone a 2,1 nel 2050). Questo significa una pressione enorme sul mercato del lavoro: in Tanzania, ad esempio, ogni anno sono più di 800.000 i giovani in cerca di occupazione.
Purtroppo, in linea generale, l’industria petrolifera non ha registrato un buon track record in termini di ricadute sull’economia dei paesi detentori delle risorse minerarie: non sono mancati casi di progetti costosi e faraonici – si pensi all’impianto di GNL in Papua Nuova Guinea (da 19 miliardi di dollari) - che sono rimasti isolati rispetto al resto delle economie locali: trattasi dei cosiddetti white elephants per la realizzazione dei quali le società di ingegneria (EPC – engineering, procurement and construction contractors) – hanno importato macchinari, risorse e manodopera dall’estero, con un impatto positivo molto limitato per le comunità ospiti. Fino ad ora, le oil companies hanno in linea di massima risposto alle richieste provenienti dai paesi in via di sviluppo con iniziative di Corporate Social Responsibility (CSR), ovvero progetti di supporto ad infrastrutture pubbliche quali scuole, ospedali, forniture di servizi di base alle collettività locali (acqua, fognature, ...).
Oggigiorno, le richieste provenienti dai paesi in via di sviluppo sono più profonde e si traducono in quello che viene tecnicamente definito “local content” (contenuto locale), ovvero partecipazione di imprese e lavoratori locali a progetti di investimento infrastrutturale, quali quelli del settore estrattivo. Molti paesi hanno anche recentemente ideato e implementato quadri legislativi noti come “local content policies” volti a definire in modo dettagliato i criteri di partecipazione da parte di imprese e lavoratori locali e gli obblighi per le multinazionali di trasferimento delle competenze e del know-how, ad esempio attraverso l’imposizione di operare tramite joint ventures con aziende locali. Risulta evidente, quindi, che semplici iniziative di CSR non sono sufficienti a rispondere a tali richieste.
Se i progetti di utilizzo delle risorse energetiche, siano essi un gasdotto, un oleodotto o un impianto di GNL, non sono in grado di soddisfare le “local content policies”, il rischio è che il processo di negoziazione dei progetti stessi venga rallentato o in alcuni casi i progetti stessi vengano fermati. Le aspettative sono alte non solo a livello paese, ma anche a livello di comunità locali, spesso ancora più arretrate del resto del territorio. È questo, ad esempio, il caso delle regioni di Mtwara e Lindi nel sud della Tanzania, o della provincia di Cabo Delgado a nord del Mozambico (a più di 1.600 km in linea d’aria e circa 3000 km su strada da Maputo), dove sono concentrate le attività delle grandi multinazionali del gas. Nel 2013, la popolazione di Mtwara protestò violentemente a fronte della costruzione di un gasdotto che appariva destinato a trasferire il gas naturale estratto localmente verso la capitale e per reclamare il proprio diritto sull’appropriazione di una parte dei futuri proventi.
Tuttavia, creare “local content”, occupazione e sviluppo attraverso progetti energetici non è semplice, per varie ragioni. In primo luogo, si tratta di progetti estremamente complessi dal punto di vista ingegneristico (si pensi all’oleodotto che dall’Uganda, al confine con la Repubblica Democratica del Congo, porterà il greggio al porto di Tanga in Tanzania attraversando l’entroterra dei due paesi e costeggiando il Lago Vittoria, lungo un percorso di oltre 1.400 km) e che richiedono expertise e skills che vanno spesso al di là di quelle che sono le competenze dei lavoratori e delle imprese presenti nei paesi in via di sviluppo (ad esempio in termini di standard di qualità per le imprese o certificazioni specialistiche per operai specializzati). In secondo luogo, anche qualora esistessero imprese locali in grado di aderire agli standard di qualità o lavoratori con adeguate qualifiche, questi non sarebbero sufficienti, in termini quantitativi, a coprire le esigenze derivanti dai progetti. Nel caso delle imprese, la gran parte di quelle operanti nei paesi in via di sviluppo è di dimensione relativamente piccola e la loro capacità produttiva è limitata rispetto alle esigenze di fornitura richiesta: ad imprese abituate a fornire beni o servizi per decine di migliaia di dollari, si offrono contratti per milioni, il che richiederebbe investimenti significativi per un loro adeguamento. A livello di forza lavoro, lo skill gap è presente e manifesto soprattutto per quanto riguarda le competenze di medio livello che riguardano operatori di macchinari, artigiani specializzati e supervisori, il cosiddetto “missing middle”, che richiede esperienza sul campo in progetti simili. Terzo, e collegato al precedente, i fattori di rischio associati ai progetti in ambito petrolifero e gas sono numerosi e gli standard di qualità e sicurezza applicati si addicono poco all’integrazione di nuove imprese nelle catene del valore Oil&Gas, considerati gli altissimi costi in caso di potenziali difetti o di ritardi nel progetto (“better safe than sorry”). Quarto, la domanda di beni e servizi proveniente da questi settori è in molti casi specifica, mentre formare la forza lavoro locale richiede tempo.
La presenza di questi vincoli non significa, tuttavia, che non si possa e non si debba fare di più per facilitare gli spillover positivi che i grandi progetti possono avere sulle economie dei paesi in via di sviluppo considerando che la “localizzazione” di una porzione – anche minima - di progetti di miliardi di dollari può avere una ricaduta significativa su economie in via di sviluppo: si pensi che il progetto di GNL in Tanzania è previsto avere un costo di circa 20-25 miliardi di dollari a fronte di un’economia con un PIL di poco superiore a 50 miliardi di dollari.
Quali sono le lezioni che si possono trarre dalle esperienze già fatte?
- Comunicazione trasparente, funzionale a calibrare le aspettative. Nella gran parte dei casi, solo una minima parte della domanda di beni e servizi per un progetto di svariati miliardi di euro può essere catturata da un mercato locale: ad esempio, ci sono soltanto una manciata di imprese al mondo che dispongono di tecnologie per trivellare gas a 3 km di profondità nell’oceano. Comunicare chiaramente i requisiti tecnologici e la complessità tecnica dei progetti, ma anche il potenziale di sviluppo di specifiche filiere produttive può contribuire a formare aspettative realistiche.
- Iniziative di supporto a lavoratori e imprese locali devono essere lanciate con adeguato anticipo. Sono necessari programmi di supporto nelle filiere di base, nelle quali la manodopera e i fornitori locali possono essere utilizzati (personale di sicurezza, pulizia, catering, costruzioni di base, etc) al fine di permettere l’acquisizione dei requisiti minimi che devono essere rispettati. Talvolta, si tratta di formazione di base, ad esempio la conoscenza della lingua inglese per poter comunicare con personale internazionale. Tuttavia, è cruciale dare il tempo a lavoratori e imprese per sviluppare le competenze necessarie, acquisire le certificazioni adeguate ed esercitarle sul campo per poi metterle in uso: per tale ragione, i programmi formativi devono avere un orizzonte temporale di almeno 18-36 mesi rispetto alla data di utilizzazione.
- Il settore pubblico ha un ruolo critico per supportare programmi di capacity building che abbiano una tempistica coerente con le esigenze di imprese e lavoratori locali. Mentre la “localizzazione” di una quota rilevante della domanda di beni e servizi passa da programmi di intervento, le International oil companies (IOCs) sono poco incentivate a lanciare programmi su larga scala prima della decisione finale di investimento e quando quest’ultima è stata presa, le tempistiche dei progetti sono così stringenti da non permettere di colmare adeguatamente il gap tra domanda e offerta. Per questa ragione la partecipazione del settore pubblico - con il supporto di donatori e organismi internazionali - permette di ridurre oneri e rischi (non solo finanziari) per il settore privato. Un partenariato pubblico/privato (PPP) può rappresentare una soluzione per interventi volti a creare capacità attraverso programmi di training e tirocinio nelle imprese o in centri specializzati - come i cosiddetti centri di “Technical and vocational education and training”, o TVET - che dovrebbero essere avviati molto prima rispetto alle date di lancio dei progetti.
- Gli investitori privati devono adeguare le proprie politiche di procurement e giocare un ruolo chiave nelle iniziative di “capacity building” dei fornitori locali. Ci sono ampi margini di miglioramento nel ruolo che le società petrolifere internazionali possono esercitare nei confronti dei lavoratori e delle imprese locali, al di là della partecipazione a progetti congiunti di formazione (vedi punto precedente). In particolare, devono porre in essere un serio lavoro di comunicazione relativo agli standard che devono essere garantiti (quali i requisiti di certificazione ISO sui tipi di cemento da utilizzare per la costruzione o gli standard per i materiali elettrici e geotecnici). Analogamente, il loro modus operandi deve “adattarsi” alle esigenze di mercati emergenti: in particolare, le metodologie di procurement devono essere adattate ad imprese di taglia decisamente inferiore a quelle con le quali operano in mercati più sviluppati. Ad esempio, forniture su larga scala possono essere messe a gara per quantitativi minimi per permettere a SMEs locali di partecipare.
- Politiche ed interventi mirati devono essere focalizzati in catene del valore sostenibili. Nonostante i vincoli descritti, in ogni progetto esistono delle catene del valore che possono essere “localizzate”, senza tuttavia rallentare i progetti stessi, ma soprattutto mantenendo gli elevati standard di qualità e sicurezza necessari in questi ambiti. È tuttavia importante che tali programmi di capacity building tengano in considerazione la trasferibilità delle competenze che si mira a sviluppare al fine di garantire la sostenibilità dell’investimento al di là dell’orizzonte temporale di un singolo macro-progetto. Per questo va data priorità alla creazione di competenze in settori che fanno parte della catena del valore del comparto estrattivo ma che possono anche contribuire autonomamente allo sviluppo economico dei paesi emergenti: si pensi al settore delle costruzioni, che potrebbe beneficiare della domanda proveniente dal comparto estrattivo per acquisire capacità e rispondere poi alla crescente domanda di abitazioni civili (legate all’urbanizzazione) o di infrastrutture pubbliche (strade in particolare, ma anche centrali elettriche, etc). Un altro settore particolarmente rilevante è quello agroalimentare: localizzare l’acquisto di prodotti alimentari per soddisfare le migliaia di persone impegnate per anni nella costruzione degli impianti potrebbe creare le basi per una filiera agroalimentare in paesi nei quali questa è quasi assente. Tuttavia, per identificare le filiere più appropriate a livello di singolo paese (e regione) è necessario condurre prima degli studi di fattibilità.
- Le agenzie di sviluppo possono giocare un ruolo di facilitatore tra il settore pubblico e gli investitori privati. Creare un dialogo costruttivo fra i diversi interlocutori, in particolare i governi, le IOCs e il settore privato locale è fondamentale per permettere di agire in anticipo e rispondere in modo coordinato alla domanda potenziale del settore estrattivo con interventi mirati. Le agenzie di sviluppo possono svolgere un ruolo catalitico e super partes per definire e implementare interventi a supporto della creazione di local content, in primo luogo contribuendo a creare consapevolezza fra i vari stakeholders sulle concrete possibilità di coinvolgimento dell’industria e della forza lavoro locale in specifiche filiere produttive, ma anche attraverso il (co-)finanziamento di specifici interventi volti a colmare il gap tra domanda e offerta.
Andrea Dall’Olio (Lead Financial Sector Economist Finance, Competitiveness and Innovation Global Practice, World Bank). L’articolo ripercorre alcuni aspetti che sono stati trattati in maniera più approfondita in uno studio a cura dell’autore dal titolo “Leveraging a large capital investment to develop local value chains: local content in the construction of Tanzania’s LNG facility”, disponibile online