Se non è ancora una necessità della Politica, ancor prima che la terra tremasse, è diventata una urgenza della Comunità, civile e imprenditoriale, quella di intervenire sul patrimonio costruito con sguardi, metodi e approcci di nuova generazione rispetto alla tradizione edilizia ed energetica.
A volte si cercano buone risposte, mentre altre volte diventa vitale cercare le “buone domande”. In una stagione di grandi contrazioni, ma anche di profonde trasformazioni, vorremmo sottrarci alla tentazione “illuministica” di conoscere le soluzioni alla complessa sfida di intervenire sul patrimonio immobiliare italiano e prendere le mosse da una domanda primaria: perché non si riesce a tradurre in “politiche” e “azioni” la forte attenzione maturata sulla necessità di rigenerare i nostri immobili?
Nella “giungla” dei numeri sul nostro parco residenziale da rigenerare, l’ultimo censimento ISTAT (2011) rappresenta un riferimento stabile. In Italia, sono censiti 14.452.680 edifici e 63.115 complessi di edifici, con un incremento intercensuario rispettivamente pari al 13,1% e al 64,4%. È di tipo residenziale l’84,3% degli edifici complessivamente censiti (pari a 12.187.698), in crescita dell’8,6% rispetto al 2001, in linea con l’incremento riscontrato per le famiglie. Il 51,8% degli edifici è costituito da abitazioni singole, mentre nel complesso gli oltre 12 mil. di edifici residenziali comprendono 31.208.161 unità abitative. Di queste, sono 24.169.961 quelle effettivamente abitate, mentre ammontano a poco più di 7 mil. le abitazioni non occupate. Oltre il 56% del parco edilizio è stato costruito prima degli anni ‘70, quando sono state emanate le prime norme sull’antisismica (legge 1086 del 1971) e sul risparmio energetico (legge 376 del 1976). Per tali edifici, la quota di immobili in stato di conservazione pessimo o mediocre varia dal 16% per gli edifici costruiti negli anni ’60 ad oltre il 28% per quelli costruiti prima del ‘45.
È ormai noto che le nostre abitazioni sono responsabili del 40% del fabbisogno primario di energia e del 38% delle emissioni di CO2. Ciò, da un lato, costituisce per l’industria un potenziale di mercato per gran parte inattuato e superiore ai 100 mld. l’anno per il prossimo quinquennio. Ma, dall’altro lato, significa anche che occuparsi di ambiente attiene ad una politica di intervento e di riuso responsabile delle nostre case, maggiormente in linea con le direttive internazionali e, ancora di più, con i desiderata delle comunità locali in tema di salute (in non pochi casi l’inquinamento interno alle nostre abitazioni rischia di essere superiore all’ambiente circostante).
Le evidenze sopra descritte sullo stock del nostro patrimonio residenziale mostrano inequivocabilmente come le città italiane siano ormai gremite di “rifiuti urbani”. Nella nostra società, diventa scontato cambiare lo smartphone o il computer per essere al passo con l’innovazione tecnologica o sostituire l’automobile per ragioni oggettive (consumi, comfort, etc) o intrinseche (emozione), e risulta altrettanto ammissibile spendere quindici anni di uno stipendio medio annuo per comprare un’abitazione vecchia, inquinante e insalubre. Tuttavia, sull’intervento patrimoniale siamo ancora “istruiti” dalla vecchia tradizione edilizia ed energetica, pubblica e privata, a non muovere alcun passo se dal valore immobiliare non si genera nuovo valore immobiliare, perdendo il grande potenziale di generare nuovo valore ecosistemico (sociale, pubblico, ambientale).
La Strategia per la riqualificazione energetica del parco immobiliare nazionale (STREPIN) stima un potenziale di risparmio al 2020 di circa 5,7 Mtep/anno, con investimenti da sostenere nel settore residenziale pari a 13,6 mld. di euro l’anno per interventi globali e 10,5 mld. di euro l’anno per interventi parziali. Seppure sia stata introdotta l’obbligatorietà della certificazione energetica degli edifici (APE), quest’ultima non influisce oggi in maniera significativa nella determinazione del valore attuale dell’immobile, mentre potrebbe costituire una variabile di interesse per la mitigazione del rischio liquidità, se non di prezzo, nel mercato immobiliare di medio termine.
Saper intervenire sul patrimonio abitativo costruito negli ultimi trent’anni non è un problema tecnico. Le tecnologie ci sono, i progetti non mancano, le risorse finanziarie si possono trovare, manca un “progetto politico comune”. Lo stesso che aveva indotto le famiglie a diventare proprietari di automobili e case, o lo Stato a redigere un piano nazionale di alloggi pubblici. Un progetto politico costituito da una idea di futuro, da fattori emotivi e da responsabilità pubbliche condivise.
Dal 1998 al 2015 si sono registrati oltre 12,5 mil. di interventi di riqualificazione, ma la politica degli incentivi fiscali, che molto spesso si sono rivelati essere dei sussidi al sostegno di spese familiari non più procrastinabili (infissi e caldaie tout court), non ha favorito il decollo di un mercato della rigenerazione (energetica, sismica, tecnologica) e quell’auspicata trasformazione strutturale delle nostre abitazioni.
A testimoniare il carente stato qualitativo degli immobili residenziali sono anche i dati Nomisma sulle compravendite di abitazioni avvenute nel 2016, secondo cui meno di un quarto di tali abitazioni appartiene alle classi energetiche più elevate, e solo il 7,4% è costituito da immobili di classe A o A+.
In questo senso, intravvediamo una missione strategica nell’intervenire sul patrimonio costruito con sguardi, metodi e approcci di nuova generazione: colmare un gap di “infrastruttura comune”, che negli altri Paesi europei è riconducibile soprattutto al settore pubblico, da un lato per consentire di interpretare meglio e lubrificare una domanda latente interessata a una dimensione più ampia di efficientamento (energetica, economica, spaziale, funzionale, tecnologica, etc), dall’altro lato per spingere una timida offerta su una più alta qualità certificata e monitorata dei progetti, così da allearsi con il mondo della policy e della finanza per la bancabilità degli interventi.