Gli Stati Uniti rincorrono l’obiettivo, tanto ambito e quanto sfuggente, dell’indipendenza energetica almeno dagli anni Settanta, quando le fluttuazioni del prezzo del greggio e le profonde trasformazioni del mercato energetico contribuirono a trascinare il paese in una prolungata crisi economica. Le lunghe code ai distributori di benzina di fine decennio furono il simbolo più evidente della dipendenza del paese da fonti petrolifere estere.
Il modo in cui i presidenti hanno tentato di placare la tradizionale sete di energia del gigante americano – che ancora oggi consuma annualmente più di quanto facciano assieme Unione Europea e Russia – ha avuto negli anni ripercussioni importanti non solo sull’economia e l’ambiente statunitense ma anche sugli orientamenti internazionali, reindirizzando investimenti, stimolando o scoraggiando innovazione e, più in generale, influenzando il dibattito e la cooperazione globale sui temi legati al cambiamento climatico.
Dall’inizio del ventunesimo secolo l’attenzione per il problema è cresciuta nuovamente, ben prima in realtà che gli eventi dell’11 settembre 2001 rendessero lampante la vulnerabilità statunitense e acuissero i timori del paese di rimanere a secco. Sul finire del decennio precedente, gli Stati Uniti avevano superato per la prima volta nella loro storia il muro simbolico del 50% d’importazioni di petrolio rispetto al fabbisogno nazionale e la questione energetica figurò sin da subito tra le priorità dell’amministrazione di George W. Bush.
Una “task force” per l’energia fu annunciata solo due settimane dopo l’insediamento. Il gruppo di lavoro, capeggiato dal vice-presidente Dick Cheney (ex-dirigente della multinazionale del settore petrolifero Halliburton), produsse il suo report nella primavera del 2001.
Due erano i modi, non esclusivi, in cui la vulnerabilità statunitense poteva essere ridotta: contenere i consumi o aumentare la produzione interna. La seconda strada avrebbe necessariamente portato a scegliere su quali fonti – fossili o rinnovabili – puntare. Con circa il 40% dell’energia consumata internamente derivante dal solo petrolio, la via era già tracciata per un’amministrazione i cui legami con l’industria estrattiva erano particolarmente stretti. Nonostante una retorica che evidenziava l’importanza delle rinnovabili, le politiche furono nei fatti a senso unico. Bush puntò a rilanciare la produzione statunitense dei combustibili fossili. La proposta più famosa – e discussa – fu l’apertura alla trivellazione dell’Arctic National Wildlife Refuge, un’area incontaminata dell’Alaska dichiarata protetta dal Congresso nel 1980. A questa si aggiungevano enormi aiuti al settore privato, sotto forma di sgravi fiscali e deregolamentazione.
L’ostruzionismo al Congresso e gli sviluppi post-2001, che non fecero altro che aggravare l’ossessione dell’amministrazione per i combustibili fossili, ritardarono l’approvazione di una nuova legge energetica, cui si giunse solo nel 2005 con l’approvazione dell’Energy Policy Act. Quest'ultimo, pur incorporando molte delle raccomandazioni e l’orientamento suggerito della task force del 2001 nella sua versione finale fu privato, grazie all’opposizione democratica e ambientalista, dell’autorizzazione alle perforazioni nella riserva naturale nell’Artico. Una seconda legge, l’Energy Independence and Security Act, fu approvata da un Congresso a controllo democratico nel 2007, quando il prezzo della benzina (a causa principalmente dell’instabilità in Medio Oriente provocata dalla stessa amministrazione Bush) era ormai alle stelle. Questa volta, con intesa bipartisan, si votò per costringere i costruttori di automobili a innalzare gli standard di efficienza dei veicoli e incentivare la produzione di bioetanolo come combustibile alternativo. Fu una vittoria a metà, però, perché, prima della fine del mandato, Bush fece in tempo ad annacquarla con provvedimenti amministrativi e a togliere il bando sulle trivellazioni offshore.
È all’elezione di Barack Obama, nel 2008, che è corrisposta una vera svolta nelle politiche energetiche. Il presidente democratico ha posto da subito un accento particolare sull’eliminazione degli sprechi e sull’uso di fonti rinnovabili come chiave della ripresa economica e base di una vera indipendenza, prima di tutto dal petrolio stesso. Non solo: Obama ha ripetutamente presentato il fotovoltaico e l’eolico come necessari per lo sviluppo futuro di tutto il pianeta, oltre che degli Stati Uniti, identificando nel cambiamento climatico la minaccia più grande alle prossime generazioni.
La sua azione in quest’ambito è stata più volte indicata come uno dei maggiori successi dell’amministrazione. Numerosi sono stati i regolamenti per l’innalzamento degli standard di efficienza energetica, massicci gli investimenti statali per il passaggio alle rinnovabili e importante la decisione di bloccare la costruzione del mega-oleodotto Keystone XL, ma due, soprattutto, sono i provvedimenti che emergono come i pilastri della politica energetica di Obama, ora a rischio con la presidenza di Donald Trump.
Il primo è il Clean Power Plan (2015), un piano per ridurre entro il 2030 le emissioni di anidride carbonica delle centrali elettriche esistenti di circa il 30% rispetto ai livelli del 2005. La legge assegna a ogni stato una soglia massima, lasciando libertà su come agire per rientrare nei parametri. I tagli imposti sono però così ampi che renderebbero di fatto impossibile aprire nuove centrali alimentate a carbone nel paese.
L’altro è l’Accordo sul clima di Parigi del dicembre scorso (COP21), fortemente voluto dall’amministrazione, che impegna i 195 paesi firmatari a diminuire la produzione di gas serra e incentivare il passaggio a fonti di energia pulita dei paesi meno sviluppati.
Entrambi i provvedimenti sono stati duramente criticati da Trump, che si è detto intenzionato a smantellare gran parte del largo impianto di politiche energetiche del suo predecessore entro i primi cento giorni.
Come molti prima di lui, anche Trump ha promesso il raggiungimento dell’indipendenza energetica. Le misure proposte per ottenerla, però, indicano un ragionamento completamente diverso da quello di Obama e che ha parecchi echi invece con le politiche di Bush.
Rinnovata enfasi sui combustibili fossili, deregolamentazione a favore dei settori energetici tradizionali, riduzione dei poteri federali in materia di controllo ambientale e un’ostinata, antiscientifica, opposizione all’idea del cambiamento climatico: sono questi gli orientamenti che Trump pare condividere con il 43esimo presidente, il quale a suo tempo non ratificò il protocollo di Kyoto.
La contro-rivoluzione promessa da Trump è profondissima. Il neoeletto repubblicano ha già nominato Myron Ebell, uno dei critici più agguerriti del climate change, a capo del team incaricato di gestire la ristrutturazione dall’Agenzia per la protezione dell’ambiente (l’EPA), che sotto Obama era diventata strumento esecutivo e che avrebbe dovuto gestire l’implementazione del Clean Power Plan, segnalando l’intenzione di svuotarla di ogni autorità. Nei fatti, tuttavia, tale contro-rivoluzione non sarà facile da realizzare. Rimangono infatti una serie di vincoli politici, oltre agli effetti economici positivi generati dalle politiche di Obama, che tendono a frenare un ritorno al passato: oggi il fotovoltaico e l’eolico producono rispettivamente l’1% e il 5% del fabbisogno nazionale annuale statunitense, con il settore dell’energia solare che da solo dà lavoro a più persone di quanto facciano l’estrazione di petrolio e carbone messe assieme. A questi si aggiungono dei limiti “naturali”, come il boom del gas naturale – la cui combustione rilascia meno anidride carbonica di altre fonti fossili e la cui estrazione ha ora costi bassissimi negli Stati Uniti – che sembrano condannare il carbone alla marginalità.
È presto per dire se Trump riuscirà effettivamente a riportare il paese indietro di quasi due decenni. Di sicuro, il mito della piena indipendenza energetica del colosso statunitense, seppur più vicino, sembra destinato per il momento a rimanere tale: un mito, mentre il suo racconto – pubblico e politico – continua a servire come cartina tornasole di un dibattito sull’energia che ha effetti e ramificazioni su scala globale.