A distanza di circa un anno dalla sottoscrizione dell’Accordo di Parigi, se è motivo di soddisfazione il raggiungimento della soglia di ratifiche per numero di stati e loro quota emissiva tale da consentirne l’entrata in vigore, non altrettanto può dirsi sul piano delle politiche e delle azioni concrete poste in essere dagli stati.

Quel che contrasta con l’urgenza di agire – “Action Now” campeggiava sulla Torre Eiffel nei giorni della COP21 – più volte ribadita nel testo dell’accordo. Il fattore tempo è d’altronde cruciale perché – dato il trend crescente delle emissioni – più si allunga più si accrescono i rischi dei cambiamenti climatici e i costi per fronteggiarli. Specie ove si consideri che i piani nazionali presentati in vista di Parigi, sotto la duplice ipotesi che siano compiutamente realizzati e che i risultati siano pari alle attese, consentirebbero di attenuare la curva tendenziale delle emissioni ma non di piegarla all’obiettivo fissato dei 2°C.

Permane in sostanza un sensibile emission gap tra ambizioni e realtà come attestato nello stesso preambolo dell’accordo. E’ pur vero che nel recente passato le emissioni nell’aggregato OCSE (38% di quelle globali) sono cresciute ad un tasso inferiore a quello del loro prodotto interno lordo – ad attestare un qualche disaccoppiamento tra le due grandezze – ma è altrettanto vero che ciò è imputabile più che a deliberate e strutturali politiche climatiche all’insoddisfacente andamento delle economie (specie in Europa) che si spera temporaneo e agli sviluppi dei mercati dell’energia (sostituzione metano al carbone in America). Le cose non stanno andando come promesso senza alcuna accelerazione nelle politiche climatiche: si tratti dell’individuazione degli strumenti economici con cui abbattere le emissioni (carbon price o carbon tax); delle innovazioni tecnologiche su cui puntare specie sul versante della Ricerca e Sviluppo; dell’approntamento delle infrastrutture necessarie alla loro penetrazione.

Gli immani investimenti necessari alla realizzazione della ‘transizione energetica’ verso il dopo-fossili – stimati in 90.000 miliardi dollari (mld. doll.) nei prossimi quindici anni secondo un recente rapporto della Global Commission on the Economy and Climate1 – restano ampiamente superiori a quelli correnti. ‘Business as usual’ sembra in sostanza essere l’attitudine generale, con segnali per altro poco confortanti. Ad iniziare dalla bocciatura da parte della Corte Suprema americana del Clean Power Plan che avrebbe dovuto costituire il principale strumento per dar seguito agli impegni presi a Parigi da Obama, cui si è aggiunto il veto della Camera dei Rappresentanti all’introduzione di una federal carbon tax giudicata in modo bipartisan ‘devastante per l’economia americana’. Visto il cambio di inquilino alla Casa Bianca sarà necessario diverso tempo prima che l’America adotti una qualsiasi decisione, mentre molto dipenderà da chi andrà ad abitarvi.

Non più confortanti le cose al di qua dell’Atlantico, guardando alla realtà dei fatti e non alla retorica delle parole. Diversi i motivi: il ridursi degli investimenti nelle rinnovabili in parallelo al ridursi dei sussidi (calati nel 2015 a 49 mld. doll. rispetto ai 123 del 2011)2; la ripresa dei consumi di energia dopo un decennio di riduzioni per effetto prezzi ma anche per un timido effetto reddito; il prevalere nelle angustie dei governi e di Bruxelles di altre emergenze (immigranti, terrorismo, Brexit, economia, banche). Non ultimo: l’inevitabile impatto sui prezzi dell’energia degli strumenti necessari a ridurre le emissioni visto dai governi con grande riluttanza.

Morale: vi è la prospettiva che il tempo delle decisioni, tutt’altro che indolori, sia posticipato alla chiusura del negoziato tra Commissione e stati per definire l’effort sharing della riduzione delle emissioni (40% entro 2030), negoziato che temo non sarà né rapido né facile visti i principi che dovrebbero ispirarlo dell’equità e della solidarietà, rari a vedersi nell’Europa di questi tempi. La conclusione è che la via della decarbonizzazione – per non parlare dell’utopistica meta della società zero-carbon – sarà molto più ardua, lunga, costosa di quanto possa far credere una certa retorica che ritiene sia sufficiente la buona volontà per salvare il Pianeta. Una posta in gioco troppo elevata per lasciarla alla sola tentennante politica. 

 

           

Note

[1] Cfr. Global Commission on the Economy and Climate (2016), The Sustainable Infrastructure Imperative, Washington 

2 Dati tratti da Unep-Bloomberg (2016), Global Trends in Renewables Energy Investment 2016, Frankfurt School.