Dove porta la traiettoria che parte da Parigi? Verso i 2°C, come scritto nel testo dell'accordo, oppure verso un punto critico, forse di non ritorno per il clima del pianeta? Ad un anno di distanza dal Paris Agreement della COP21 non emergono con sufficiente chiarezza segnali che possano dirimere la questione. I punti sono posizionati tanto nel quadrante positivo quanto in quello negativo: di qui la difficoltà di lettura.

In positivo, due punti: il fatto che a Parigi sia stato firmato un accordo voluto da tutti i paesi e, ancora, che l’accordo sia stato già ratificato. E’ stato infatti sufficiente un solo anno affinché il 5 ottobre 2016 – in seguito all’accelerazione impressa al processo di ratifica da USA e Cina a settembre – si raggiungessero le due condizioni soglia richieste per la sua entrata in vigore: ratifica da parte di 55 paesi le cui emissioni rappresentano il 55% del totale. In sostanza, l’accordo è entrato in vigore 30 giorni dopo il conseguimento delle soglie, il 4 novembre 2016. Questo secondo punto è assai rilevante se si riflette sul fatto che occorsero ben 7 anni per pervenire alla ratifica del Protocollo di Kyoto, firmato nel dicembre 1997 ed entrato in vigore il 16 febbraio 2005.

D’altra parte, sappiamo che nel quadrante negativo giacciono due punti assai pesanti. L'accordo non è sufficiente, ovvero gli impegni presi dai paesi non consentono di pervenire all’obiettivo dei 2°C, peraltro espresso nell'ambito dello stesso Accordo di Parigi. Secondo le stime più accreditate, infatti, il range di crescita della temperatura conseguente agli impegni presi alla COP21 sarebbe compreso tra i 2,7°C (IEA) e i 3,5°C (Climate Interactive). Inoltre, si tratta di un accordo basato sulla volontarietà degli impegni e non sull'obbligatorietà. In altri termini, i pledges espressi dai paesi non sono legalmente vincolanti, laddove sarebbe vincolante l’obiettivo macro dei 2°C. Si potrebbe dire che tale contraddizione rappresenti la grande aporia dell’Accordo di Parigi e sia il simbolo della sua intrinseca inconsistenza. Gli elementi di dettaglio – i pledges – non coincidono con quelli generici - 2°C o, al meglio, 1,5°C.

E’ indubbio, comunque, che la direzione presa sia quella giusta e che da Parigi parta una traiettoria di riduzione delle emissioni. Non è ancora chiaro se essa sia appropriata, come affermano gli ottimisti, oppure se essa sia del tutto insufficiente, come sostengono i pessimisti. Nel corso dell’anno, purtroppo – contrariamente a quanto accaduto sul piano delle ratifiche – non sono emerse azioni di policy vigorose da parte degli Stati, tali da lasciar pensare di essere di fronte a un cambio di passo. Certo, azioni quali la “North American Climate, Clean Energy, and Environment Partnership”, oppure il “New Climate Change Bill” della California, oppure ancora la proposta della Commissione europea di introdurre, per i paesi membri, vincoli alle emissioni dei settori non ETS, indicano che qualcosa si sta muovendo. Tuttavia, oggettivamente, non si tratta di scatti energici tali da evidenziare un cambiamento di velocità nelle politiche climatiche.

Ora, dopo un anno in chiaro-scuro, si arriva alla COP22 di Marrakech (7-18 novembre 2016), che rappresenta il primo punto della traiettoria che parte da Parigi. La domanda chiave è la seguente: siamo di fronte ad un evento rilevante, tale da poter modificare l’inclinazione della traiettoria? La risposta è negativa: la conferenza ha un elevato contenuto tecnico, essenzialmente teso a rendere operativa l’architettura concepita in Francia. Non si tratta, comunque, di decisioni che possano cambiare l’equazione della parabola. Le aree di dibattito più rilevanti per la conferenza di Marrakech sono essenzialmente quattro:

  • NDCs (Nationally Determined Contributions, ovvero gli impegni di riduzione delle emissioni): la COP22 dovrà chiarire in che modo le parti dovranno aggiornare gli impegni che sottoporranno nel 2019-2020. E’ probabile che venga definito un form comune per tutti i paesi, come pure un identico orizzonte temporale (2025 o 2030), al fine di accrescere il grado di trasparenza della contabilità delle emissioni e dell’accordo nel suo insieme.
  • Global stocktake, ovvero il bilancio complessivo dei progressi fatti in vista dell’obiettivo finale dell’accordo (2°C, o al meglio 1,5°C): è previsto nel 2023, con una tappa intermedia nel 2018 (“facilitative dialogue”). Si tratta di un elemento cruciale dell’intera architettura definita a Parigi, i cui dettagli, in particolare la forma che esso assumerà – es. decisione formale COP o documento tecnico – andranno chiariti nella COP22.
  • Adaptation: posto che a Parigi si è attribuito un ruolo chiave all’adattamento, soprattutto per i paesi in via di sviluppo, chiedendo che si pianifichino azioni in tal senso, la conferenza di Marrakech dovrà definire metodologie di verifica tanto dei bisogni quanto dei piani di adattamento.
  • Finance: Parigi prevede un flusso ingente di fondi (100 miliardi all’anno fino al 2025) a favore di interventi di mitigazione e adattamento da realizzare nei paesi in via di sviluppo, con reporting biennale da parte dei paesi industrializzati. La COP22 dovrà definire le modalità di contabilizzazione delle risorse mobilizzate attraverso interventi pubblici. 

 

Come è evidente dalla lettura dei quattro punti, siamo di fronte ad aspetti eminentemente tecnici e, in certa misura, evanescenti. Per il primo bilancio sullo stato dell’arte dell’accordo – quante emissioni sono state tagliate e quanto l’obiettivo dei 2°C è lontano – occorrerà attendere il 2023, ovvero 7 anni a partire da oggi. Nel frattempo, oltre 190 paesi negoziano e limano diafani dettagli tecnici. Ritorna la domanda di sempre: non sarebbe stato più efficace un negoziato snello tra i dieci paesi che emettono di più, responsabili di ¾ delle emissioni mondiali? La domanda è retorica e la risposta limpida. Tuttavia, si era detto che – nonostante la complessità originata dalla collegialità –Parigi segnava un passo in direzione della semplificazione, ovvero un punto di svolta del negoziato internazionale, con il passaggio da un approccio dirigistico top-down ad uno più democratico di tipo bottom-up. I target non erano più calati dall’alto, bensì diventavano espressione della libera volontà dei paesi.

Un anno dopo – definito il quanto – il negoziato riparte con l’affinamento del come. Di nuovo il negoziato capovolge i suoi poli, il top torna ad essere top così come il down ritorna down. E’ dall’alto che discendono i dettagli su come raggiungere e verificare i target. E’ dall’alto che calano le procedure operative dell’accordo. Dopo i fuochi di Parigi, la trattativa internazionale rientra nel suo alveo naturale: quello burocratico.

 

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