Mentre in Europa si organizza il funerale del petrolio, il resto del mondo pensa ad investire per garantire i rifornimenti di petrolio per i prossimi decenni. La crescita della domanda di petrolio nel mondo sta avvenendo a ritmi elevati ed impensabili. Ha ormai superato il tetto dei 100 milioni di barili al giorno, assestandosi per il 2025 sui 105 milioni di barili al giorno. Riuscire a coprire questo livello di domanda richiederà investimenti finanziari enormi, sfide tecnologiche gigantesche, una ristrutturazione del settore della raffinazione, un ripensamento del mercato petrolifero internazionale.
La realtà dei numeri torna ad imporsi con prepotenza. Alla redditività dei settori upstream petroliferi, che raggiunge livelli del 20-30%, si contrappone una redditività delle fonti alternative del 3-5%, con tutta la inaffidabilità che ancora caratterizza questo settore. Questo quadro complessivo ha obbligato le varie compagnie petrolifere a ridefinire le proprie strategie profondamente, con velocità di reazione molto diverse in funzione del loro stato di salute finanziario, il possesso di tecnologie moderne ed efficaci e, soprattutto, il patrimonio di capacità professionali e manageriali, che sono riuscite a salvaguardare.
Le politiche green hanno imposto alle istituzioni finanziarie di ridurre o azzerare gli investimenti al settore Oil&Gas, procurando tanti danni alle aziende, specialmente a quelle europee, nelle quali si è verificato un impoverimento complessivo in termini di risorse finanziarie e capacità di investimento, ma anche nella perdita quasi irreversibile di risorse umane e professionali. Fattori che rendono oggi difficile, se non impossibile, il loro rilancio verso le sfide che si aprono davanti a loro. Non a caso sono le compagnie che cercano di recuperare il rapporto con gli investitori potenziando i canali della comunicazione.
Altre compagnie, le più grandi, hanno saputo riorganizzare le forze e stanno programmando scelte ed investimenti strategici. Nel Mare del Nord, si parla di fusione fra Shell e BP le compagnie che hanno creato e gestito il complesso mercato del Brent, bussola di riferimento del mercato mondiale. Questa operazione genererebbe una major all’altezza di Exxon e Chevron, le due grandi del mercato globale, permettendo una concentrazione di risorse finanziarie ed operative per un rilancio della ricerca mineraria alle più alte latitudini del Mare del Nord, con delle incursioni nel circolo polare artico.
Gli investimenti nel settore upstream in ricerca, esplorazione e produzione di idrocarburi vedono un rilancio ed una concentrazione su progetti di grandi dimensioni e con prospettive di lungo periodo. I soggetti in grado di affrontare questa sfida sono le compagnie che, negli anni passati, si sono imposti una dura disciplina finanziaria alzando la “cash neutrality”, rendendosi competitivi e aumentando la loro capacità di affrontare investimenti impegnativi. Su questa base, hanno potuto negoziare accordi con varie compagnie di stato, ottenendo risultati prestigiosi e redditizi. Solo qualche esempio.
Shell è entrata in alleanza con la società argentina YPF per lo sviluppo e la produzione del giacimento di Vaca Muerta con un investimento di 50 miliardi di dollari, che dovrebbe permettere lo sviluppo del progetto di “Argentina LNG” con una esportazione annua di gas liquefatto dal valore di 7 miliardi all’anno. Questo progetto confermerà la leadership indiscussa di Shell nel settore del LNG e darà un impulso significativo al mercato internazionale del gas liquido.
Bp è tornata all’attenzione delle cronache per l’espansione della sua presenza in Iraq, dove, a fianco dell’attività già in corso in Rumayla, ha ripreso il controllo dello sviluppo e della produzione dello storico oil giant di Kirkuk nel Nord del paese. Si tratta di una svolta storica che ridà a BP un ruolo di primo piano nell’area del Golfo.
Parallelamente, BP è stata protagonista dello sviluppo del giacimento a gas di Shah Deniz in Azerbajan, che fornirà 26 miliardi di metri cubi di gas ed oltre 4 milioni di tonnellate di condensati, dove l’arma vincente è stata la soluzione tecnologica della compressione/aspirazione a testa pozzo.
Exxon e Chevron considerano marginali i micro investimenti nello shale oil e gas negli USA e si stanno concentrando su investimenti in aree più sfidanti con ricorso a tecnologie più avanzate con ritorni economici importanti. I profitti di ExxonMobil sono saliti del 5% in controtendenza rispetto ad altre compagnie del settore. L’investimento più significativo è stato quello della Guayana effettuato in acque profonde e che è risultato essere il più grande successo a livello mondiale. Ci si aspetta una produzione al di sopra di 1,7 milioni di barili al giorno, un valore in linea con quelli legendari del Golfo Persico.
Chevron appare concentrata nel consolidamento delle sue attività attraverso acquisizioni e ristrutturazioni, ed è riuscita a far registrare il livello storico di 1,3 milioni di barili di produzione (boe) nel campo di Tengiz in Kazakistan, dove ha investito 47 miliardi di dollari.
Diverso il quadro per le compagnie europee, la cui dimensione appare inadeguata per affrontare le sfide dei prossimi decenni. Forse, le strategie energetiche ed ambientali della UE hanno creato disorientamento e posto limiti seri alla definizione di nuove linee di sviluppo per il futuro. Il caos nel settore del gas, della raffinazione e del settore automotive hanno finito col tarpare ogni idea di sviluppo che sappia rinnovare le attività storiche dell’Oil&Gas coniungandole con prospettive tecnologiche vincenti per affrontare una seria e realistica “transizione” in Europa e nel resto del mondo.
Dopo le aspettative createsi all’inizio della crisi ucraina, rimangono incomprensibili i ritardi nello sviluppo del giant di gas in Mozambico o i ridotti risultati nell’Africa Occidentale e Settentrionale.
Unica fonte di approvvigionamento affidabile è stata l’Algeria, ma per garantire rifornimenti rilevanti nel lungo periodo ai mercati europei occorrerebbero investimenti dell’ordine di decine di miliardi di dollari che le nostre compagnie non sono in grado di affrontare, vista lo loro fragilità finanziaria, tecnologica e manageriale.
Nel nostro Paese, questa fragilità appare ancora più evidente, se solo si osserva la mancanza di strategie di lungo periodo che sta portando alla continua riduzione della produzione e la totale fermata della ricerca di idrocarburi nel territorio nazionale.
Un quadro di luci ed ombre, dove permangono alcuni macigni difficili da rimuovere. Continua a prevalere una concezione ideologica della transizione energetica, che ignora il complesso percorso attraverso fasi successive, quelle consentite dallo stato di sviluppo della tecnologia, del rispetto della domanda di energia da parte di tutti i popoli del mondo, attraverso interventi equilibrati che diano risposte a tutti i soggetti coinvolti, e non solo a minoranze europee.