Il 2024 è stato un anno “sui generis” dal punto di vista della politica internazionale: per la prima volta nella storia, oltre metà della popolazione mondiale, distribuita in più di 70 Paesi, si è recata alle urne per scegliere i propri rappresentanti, dagli Stati Uniti all’India, dall’Unione Europea a Taiwan, dall’Africa occidentale al Sudamerica. Se, tuttavia, in molti casi le tornate elettorali non hanno rappresentato il “trionfo” dell’esercizio democratico (si pensi alla Russia dove, senza sorprese, Putin è stato confermato Presidente per la quinta volta vincendo le elezioni di marzo con risultati plebiscitari), l’anno elettorale che si è appena chiuso è stato profondamente influenzato dalle dinamiche geopolitiche e geoeconomiche globali.  

Da un lato, infatti, a pesare è stata la stratificazione di conflitti “caldi” – dall’Ucraina al Medio Oriente – e “freddi” – si pensi alle  crescenti tensioni tra Cina e Taiwan o, ancora più in generale, a quelle tra Pechino e Washington – , dall’altro, il peso di un’economia globale che fatica a riprendersi dall’onda lunga della pandemia di Covid-19 e dall’impatto, diretto e indiretto, di quei conflitti appena citati (per la Banca Mondiale, il mondo nel 2024 è cresciuto del 2,6%, un dato ampiamente sotto la media registrata negli anni ’10 del 2000).

Se il 2024, dunque, è stato l’anno in cui il mondo ha avuto la possibilità di reagire (anche elettoralmente) al ritorno della geopolitica al centro del dibattito e delle vite di larga parte della popolazione globale, l’anno appena iniziato sarà quello in cui i decisori internazionali dovranno necessariamente affrontare le sfide che la geopolitica pone, cogliendone, allo stesso tempo, le opportunità.

Sono almeno tre, dunque, i principali “hotspot” geopolitici da osservare nel 2025.

Primo fra tutti è certamente quello della competizione tra Cina e Stati Uniti. La vittoria di Donald Trump – che in campagna elettorale ha promesso il ritorno al pugno duro contro Pechino, caldeggiando nuovi dazi sulle esportazioni cinesi – alle elezioni di novembre rilancia la centralità della competizione tra le due grandi potenze sul piano geoeconomico. Se, infatti, la guerra in Ucraina e l’avvicinamento russo-cinese (ma anche il consolidamento, forse più auspicato che effettivo, di un nuovo “Asse del Male” con Iran e Corea del Nord sempre più vicine e dipendenti da Pechino e Mosca) avevano consentito all’Amministrazione Biden di porre il conflitto globale con la Cina sul piano – sfumato – di uno scontro più ampio tra democrazia e autoritarismo, ordine liberale e revisionismo, la cifra delle politica estera suggerita da Donald Trump appare meno pregna di connotazioni ideologiche – che per l’Amministrazione uscente avevano anche la funzione di mobilitare i partner “like-minded” come l’Unione Europea – e più propensa a un approccio che metta al primo posto gli interessi squisitamente americani (il ritorno dell’”America First” della prima Presidenza Trump).

Un tale approccio potrebbe essere visto da Pechino come di più facile gestione, facendo anche leva sulla volontà di Trump di costruire una relazione personale – da businessman a businessman, più che da Capo di stato a Capo di stato – con il leader cinese Xi Jinping. Se è chiaro che gli elementi strutturali – primo fra tutti quello tecnologico – della competizione tra Stati Uniti e Cina rimarranno al centro delle dinamiche geopolitiche globali, la rielezione di Trump, su questo fronte, rappresenta una scossa tanto per le relazioni stesse tra Pechino e Washington quanto per l’Europa che dovrà necessariamente rilanciare la propria autonomia trovando – autonomamente – un equilibrio tra i propri interessi geopolitici e geoeconomici e le relazioni transatlantiche.

La seconda dinamica che dominerà il dibattito geopolitico nel 2025 è quella relativa ai conflitti armati. Se il conflitto tra Russia e Ucraina, la guerra regionale in Medio Oriente, le tensioni nel Sahel dove assistiamo a una recrudescenza del terrorismo islamico e l’hotspot del Mar Cinese Meridionale rappresentano i conflitti che nei prossimi mesi, con ogni probabilità, attraverseranno fasi decisive, a colpire e a incidere maggiormente sugli equilibri globali sarà il “cambio di paradigma” che questa fase di conflittualità globale sta accelerando: se l’Amministrazione Trump spinge, ambiziosamente, a un aumento delle spese della difesa dei Paesi NATO al 5% del PIL, la nuova Commissione Europea ha posto al centro del proprio programma l’espansione dell’industria della difesa in risposta alle sfide strategiche poste, in primis, dalla Russia. Allo stesso tempo, le spese militari globali sono in crescita (secondo SIPRI, nel 2023, +6.8% rispetto al 2022), suggerendo che, nel 2025, queste ultime saranno un elemento sempre più centrale nell’economia globale e, ancor più, in quella europea.

Il terzo tema “caldo” è quello della sfida alla frammentazione globale. Se uno scenario di “Nuova Guerra Fredda” oggi appare più una boutade che la miglior descrizione della realtà geopolitica e geoeconomica globale, c’è oggi una parte di mondo sempre più grande e “in rampa di lancio” (si pensi all’Africa, destinata ad accrescere inesorabilmente il proprio peso economico, politico, demografico e dunque geopolitico, nel prossimo decennio – che oggi naviga tra un complesso rapporto con l’Occidente e le sue istituzioni – spesso considerate occidentalocentriche ed inique – e un altrettanto tormentato rapporto con la Cina e gli altri attori non-Occidentali. La sfida, dunque, che si pone di fronte soprattutto all’Occidente, è quella di un ripensamento del proprio rapporto come il “Global South” in senso più inclusivo e dialogante. In questo senso, l’emergere e il consolidarsi contemporaneamente di nuovi fora internazionali “revisionisti” (come i BRICS+) e di progetti di sviluppo che promuovono approcci paritari (qui si pensi al “Piano Mattei”) rappresenta forse l’elemento di maggior interesse dal punto di vista geopolitico per il 2025.