Giudicando dalla stampa, l’Europa sembra essere sull’orlo di una grande rinascita del nucleare. Alcuni paesi che sembrava avessero abbandonato questa fonte come Svezia, Italia e Paesi Bassi lo stanno oggi riconsiderando. Nuovi reattori sono proposti in altri stati, tra cui la Francia, il Regno Unito, la Polonia e la Repubblica Ceca. Progetti di piccoli reattori modulari (SMRs) sono anche discussi in paesi come Regno Unito, Repubblica Ceca e Romania. Ad ogni modo, a differenza di quanto accaduto nel passato, dove le utility erano i principali proponenti di questi progetti, oggi sono i governi nazionali a guidare l’intero processo. Alcuni Stati, invece, come ad esempio la Svizzera, che non prevedono di costruire altri reattori, stanno oggi cercando di estendere ulteriormente, dai 40 a 60 o addirittura 80 anni, il ciclo di vita dei reattori esistenti.

La ricetta per un revival del nucleare è piuttosto simile a quelle proposta per le precedenti fasi di rinascita e poggia sull’utilizzo di nuove tecnologie, delle quali si discute come se fossero già pronte ad essere impiegate e che dovrebbero risolvere criticità già riscontrate in passato. Inoltre, la narrazione suggerisce che avremmo già imparato dagli errori fatti, facilitando i processi regolatori e di pianificazione, snellendo i processi burocratici e riducendo l’opposizione politica a questi progetti. Tuttavia, se questa è la teoria, la pratica è molto diversa e  il passaggio da dichiarazioni di intenti a ordini concreti si sta dimostrando particolarmente difficile. Neppure un ordine per nuovi reattori è stato fatto in Europa  dal 2016, quando si decise per la realizzazione di Hinkley Point C nel Regno Unito.

Due sono le questioni principali che potrebbero incidere sull’intero processo di rinascita, ancora da venire: identificare una tecnologia credibile e ottenere sufficienti finanziamenti per la realizzazione di nuovi impianti.

Quanto alla tecnologia, il problema principale che riguarda i grandi reattori è che i progetti risultano ormai datati, mentre gli impianti di questa tipologia già esistenti mostrano delle problematiche. Inoltre, visto che i grandi reattori russi e cinesi sono stati generalmente esclusi dal contesto europeo per ragioni politiche, la scelta è limitata a quelli francesi di Framatome (modello EPR), a quelli di Westinghouse (AP1000) e a quelli coreani (APR1400). Ma si tratta di tecnologie sviluppate all’incirca 20 anni fa. La fama dei primi due, con costi imponenti e ritardi nelle tempistiche è ben nota. Il modello coreano, invece, si mostra più affidabile in termini di tempistiche e di costi, anche se da più parti si sostiene diversamente.  I reattori completati sinora, quattro in Corea del Sud e altrettanti negli Emirati Arabi Uniti, sono stati realizzati in circa 9-10 anni, con un conseguente aumento dei costi, questi ultimi mai ufficialmente quantificati e dichiarati in maniera autorevole. A tutto ciò, si aggiunga il fatto che il design proposto dovrebbe essere aggiornato secondo gli standard europei per essere impiegato nel continente. Il che presuppone l’aggiunta di protezioni ulteriori al reattore in caso di fusione dello stesso e di un impatto contro velivoli, facendo ovviamente aumentare i costi e rendendo più complessa la loro costruzione.

Invece, le tecnologie riguardanti gli small modular reactor (SMR) non sono ancora pronte  su scala commerciale: al momento vi è una sconcertante disponibilità di design in fase di sviluppo e la stragrande maggioranza di essi rimarrà soltanto su carta, non raggiungendo mai la fase di diffusione sul mercato. L’attenzione si sta concentrando su pochi modelli che miniaturizzano i design esistenti. L’industria nucleare ci ha costantemente detto sin dagli anni ’60 che aumentare la grandezza dei reattori potrebbe ridurre i costi. Oggi invece si dice che un ridimensionamento potrebbe portare allo stesso risultato. La disponibilità di questi nuovi modelli non sarà testata sino a che le autorità regolatorie non avranno completato le attente revisioni degli stessi, gli ordinativi saranno stati completati, i reattori completamente costruiti e si sarà anche dimostrata la loro affidabilità. Tutto ciò è lontano da noi almeno una decina di anni.

Relativamente ai problemi riguardanti il finanziamento, quel che più frena  è il fatto che il settore nucleare è particolarmente rischioso e alla mercé di ritardi e costi fuori budget nella fase di costruzione. Ciò rende molto più difficile convincere i finanziatori a dedicare i loro fondi alla realizzazione di nuove centrali. Nel passato, le utility con grandi disponibilità finanziarie erano disponibili ad assumersi la proprietà dei reattori, fiduciose del fatto che sarebbero state in grado di recuperare i costi attraverso i consumatori. L’introduzione di modelli di mercato elettrico estremamente competitivi ha portato le stesse utility a non essere più interessate al nucleare, a meno che pacchetti finanziari riescano a spostare i rischi altrove. Oggi, sono infatti i governi nazionali a guidare gli annunci di ambiziosi programmi nucleari, giocando così un ruolo centrale nell’organizzare e fornire i finanziamenti,  addirittura incaricandosi della gestione delle quote di maggioranza degli stessi impianti.

Appare chiaro che nessuno investirà in nuova capacità nucleare se sarà completamente esposto alla volatilità del mercato. Laddove il nucleare è oggi proposto, esso è basato su contratti che coprono 35 o più anni e che prevedono un prezzo che ha poca o addirittura nessuna connessione con i prezzi del mercato all’ingrosso. Il Regno Unito propose i cosiddetti Contracts for Difference (CfD) come modello nel 2013 per l’impianto di Hinkley Point C. Il paese estese la proposta ad altri quattro impianti previsti operare grazie agli stessi CfD, utilizzati nel mercato per altre fonti e, attraverso varie disposizioni e deroghe, su altri modelli di generazione. Per quanto riguarda sempre Hinkley Point C, il contratto prevedeva 35 anni di generazione ad un prezzo reale già fissato e gli operatori del mercato elettrico furono obbligati ad acquistare la loro quota di generazione a costi uguali e alle stesse condizioni dei competitor. I rischi di un aumento incontrollato dei costi sarebbero dovuti ricadere sulla compagnia francese Electricité de France (EDF). I problemi principali relativi al progetto, dopo sei anni di costruzione, sono i ritardi accumulati (si parla di +7 anni  anni sulla tabella di marcia) e il superamento del budget di circa il 90%. Di conseguenza, EDF ha dovuto ammortizzare circa 13 miliardi di euro del suo investimento nel 2024. La compagnia ha anche abbandonato l’idea di finanziare uno degli altri quattro reattori previsti del progetto di Sizewell C per via dei rischi finanziari troppo alti, nonostante gli fosse stato garantito l’applicazione del modello CfD. Il progetto degli altri tre reattori, gestiti da compagnie differenti, è invece collassato ancora prima di confermare un ordine per via della mancanza di investitori interessati.

Svezia, Polonia e Repubblica Ceca stanno oggi pianificando l’utilizzo di altre forme di CfD per i loro progetti. Lo stesso modello ha funzionato bene, ad esempio, nel caso di progetti eolici offshore, le cui consegne hanno rispettato le tempistiche attese e i costi si sono ridotti in maniera sostanziale. Ma l’esperienza di Hinkley Point suggerisce che il modello di CfD rimane inapplicabile al settore  nucleare, visto che scarica l’intero rischio sui proprietari dell’impianto.

Il tentativo successivo nel Regno Unito, il cosiddetto modello Regulated Asset Base (RAB), annunciato nel 2018 per il progetto di Sizewell C, prevedeva due innovazioni. I proprietari dell’impianto sarebbero stati investitori istituzionali, come ad esempio fondi pensionistici e fondi d’investimento. Secondo le intenzioni, essi sarebbero stati attratti dalla promessa di ritorni garantiti sugli investimenti in nuovi reattori. Il governo prevede, secondo questo modello, che il rischio d’impresa sia condiviso tra consumatori e proprietari, ma questi ultimi, soprattutto i fondi pensione, puntano a minimizzarlo del tutto questo rischio. Allo stesso modo,  uno schema per essere politicamente funzionale non può prevedere rischi che ricadono completamente sui consumatori. Attrarre investitori per il progetto di Sizewell C si è quindi reso un processo problematico e l’ordine di nuovi reattori è stato ritardato per anni, senza rosee prospettive per il futuro. L’unica via appare quella di un intervento diretto del governo, che dovrebbe acquisire una quota di maggioranza del progetto stesso. Tra gli altri paesi europei che propongono una variazione del modello di finanziamento RAB c’è ad esempio la Repubblica Ceca. In tutti i paesi in cui ci si aspetta un ritorno del nucleare, ci si attende che siano i governi a detenere direttamente o indirettamente una quota di maggioranza degli stessi impianti.

Oggi, il più ambizioso piano per il nucleare in Europa è quello della Francia, con il governo che richiede a EDF di riprendere in mano la proprietà pubblica nel 2023 e di puntare alla costruzione di sei nuovi reattori, con il primo ordine previsto per il 2026. Nonostante la vicinanza con l’ordine atteso e il luogo di costruzione già deciso e approvato (Penly), nessuna decisione è stata presa a riguardo del suo finanziamento. Il debito di EDF presuppone che sarà facilmente richiesto un intervento del governo francese, stimato ottimisticamente in 67 miliardi di euro.

Vi è stato un considerevole dibattito all’interno dell’UE a riguardo della categorizzazione, o meno, degli investimenti nell’energia nucleare come “verdi”. Ciò potrebbe infatti aiutare un po' a convincere i finanziatori volenterosi a sostenere l’industria, ma non basterebbe comunque a trasformare un progetto considerato troppo rischioso dagli investitori privati in uno attrattivo. Perciò, gli investitori continueranno a guardare con sospetto e diffidenza il settore. Vi è poi un’ulteriore questione da considerare, il forte coinvolgimento del governo nei progetti nucleari in Europa presuppone una maggiore attenzione in materia  di aiuti di stato. Ad oggi,  sembra che tutti gli aggiustamenti richiesti dall’UE siano però insignificanti da avere un reale impatto sulla fattibilità dei singoli impianti oggi discussi.

Più diviene complesso il processo di creazione di una nuova capacità da nucleare, maggiore è l’incentivo di estendere la vita dei reattori esistenti. Un fattore che fa emergere alcune difficili scelte di carattere etico. Tutti i progetti di estensione riguardano reattori realizzati prima dei maggiori incidenti della storia dell’industria, partendo da quello di Three Mile Island del 1979. Perciò, i regolatori dovranno eventualmente dare nuova vita ad un modello che, se fosse oggi presentato, non verrebbe neppure preso in considerazione. Servirebbe quindi una modernizzazione dello stesso impianto secondo gli standard oggi vigenti, il che potrebbe allungare i tempi. È quello che sta succedendo a EDF in Francia dove quest’ultima scelta si sta rivelando un processo costoso e che richiede una tecnologia nuova, sfidante e sinora non testata.

Come sembra più probabile, l’ultima previsione di un rilancio del nucleare procederà soltanto se i governi saranno pronti ad intervenire, sobbarcandosi il peso finanziario o prendendo la proprietà degli impianti, ponendo così il rischio sulle spalle dei contribuenti e dei consumatori. Di fronte all’emergenza climatica, sarà questa opzione, così dispendiosa, lenta da sviluppare e con così tanti rischi politici ad essere adottata, soprattutto dal momento in cui esistono oggi opzioni più a buon mercato, più veloci e più affidabili?

La traduzione in italiano è stata curata dalla redazione di RiEnergia. La versione inglese di questo articolo è disponibile qui