La Conferenza sul Clima di Sharm El-Sheikh si è chiusa ai tempi supplementari con l’accordo per istituire il Fondo Loss and Damage. In una decisione attesa da tre decenni, la COP27 ha deciso di istituire un nuovo strumento finanziario per sostenere la ricostruzione economica e sociale delle comunità povere e vulnerabili messe in ginocchio dai disastri climatici sempre più frequenti. Il Fondo potrà accedere a diverse fonti di finanziamento visto le considerevoli risorse finanziarie necessarie. Si stima che entro il 2030 siano necessari circa 290-580 miliardi di dollari aggiuntivi agli aiuti per l’adattamento. Come ha proposto il Segretario Generale Guterres all’ultima Assemblea delle Nazioni Unite, queste risorse possono essere reperite anche attraverso la tassazione degli extra-profitti delle imprese fossili, tenendo presente che tra il 2000 e il 2019 hanno realizzato profitti per oltre 30.000 miliardi di dollari.

Mentre la COP27 ha affrontato positivamente le conseguenze della crisi climatica con l’Istituzione del Fondo Loss and Damage, non si è invece riusciti ad affrontare la causa principale della crisi: la dipendenza dai combustibili fossili. Per mantenere concretamente vivo l’obiettivo di 1.5°C, è cruciale concordare al più presto il phasing-out sia dei sussidi alle fossili che del loro utilizzo. Secondo gli ultimi rapporti dell’IPCC e della IEA, per essere in linea con la soglia critica di 1.5°C, le emissioni climalteranti devono raggiungere il picco a livello globale entro il 2025 e diminuire entro il 2030 del 43% rispetto ai livelli del 2019. Un contributo importante può venire dal phasing-out dei sussidi alle fonti fossili entro il 2030 che può consentire una riduzione delle emissioni del 10% a livello globale. Nello stesso tempo va attuata la decarbonizzazione del settore elettrico con il phasing out del carbone, entro il 2030 per i Paesi OCSE ed il 2040 a livello globale, e del gas fossile entro il 2035 per i Paesi OCSE ed il 2040 a livello globale.

Altrimenti non sarà possibile mantenere vivo l’obiettivo di 1.5°C. Come evidenzia il Climate Change Performance Index 2023, il rapporto annuale di Germanwatch, Climate Action Network e New Climate Institute sulla performance climatica dei principali Paesi del pianeta, presentato alla COP27 e realizzato in collaborazione con Legambiente per l’Italia.

Nel rapporto si prende in considerazione la performance climatica di 59 paesi, più l’Unione Europea nel suo complesso, che insieme rappresentano oltre il 90% delle emissioni globali. Anche quest’anno le prime tre posizioni della classifica non sono state attribuite, in quanto nessuno dei Paesi ha raggiunto la performance necessaria per fronteggiare l’emergenza climatica e contenere il surriscaldamento del pianeta entro la soglia critica di 1.5°C.

In testa alla classifica troviamo i Paesi scandinavi che continuano a guidare la corsa verso zero emissioni, nonostante la crisi energetica. Danimarca e Svezia si posizionano rispettivamente al quarto e quinto posto, grazie soprattutto al loro grande impegno per l’abbandono delle fonti fossili e lo sviluppo delle rinnovabili. Seguiti da Cile, Marocco e India che rafforzano la azione climatica nonostante le loro difficoltà economiche. In fondo alla classifica troviamo, invece, Paesi esportatori e utilizzatori di combustibili fossili come Iran, Arabia Saudita e Kazakistan.

La Cina, maggiore responsabile delle emissioni globali, scivola al 51° posto scendendo di ben 13 posizioni rispetto allo scorso anno. Nonostante il grande sviluppo delle rinnovabili, le emissioni cinesi continuano a crescere per il forte ricorso al carbone e la scarsa efficienza energetica del sistema produttivo. Subito dopo si piazzano gli Stati Uniti, secondo emettitore globale, che troviamo al 52° posto. Un ulteriore passo in avanti di tre pozioni rispetto allo scorso anno, grazie alla nuova politica climatica ed energetica dell’Amministrazione Biden che inizia a dare i suoi primi risultati grazie al considerevole sostegno finanziario per l’azione climatica previsto dall’Inflation Reduction Act. Tra i Paesi del G20, solo India (8°), Regno Unito (11°) e Germania (16°) si posizionano nella parte alta della classifica. E l’Unione Europea sale di tre posizioni rispetto allo scorso anno raggiungendo il 19° posto, grazie alla presenza di nove Paesi nella parte alta della classifica, ma frenata dalla pessima performance di Ungheria e Polonia che continuano a stazionare nelle posizioni di fondo per la loro forte dipendenza dalle fonti fossili.

L’Italia continua a piazzarsi al centro della classifica (29°posto) salendo solo di una posizione rispetto allo scorso anno. Risultato raggiunto per il rallentamento dello sviluppo delle rinnovabili (33° posto della classifica specifica) e per una politica climatica nazionale ancora inadeguata a fronteggiare l’emergenza climatica. Infatti, l’attuale Piano Nazionale Integrato Energia e Clima (PNIEC) consente un taglio delle emissioni entro il 2030 di appena il 37% rispetto al 1990.

In Italia serve una drastica inversione di rotta. Si deve aggiornare al più presto il PNIEC per garantire una riduzione delle nostre emissioni climalteranti, in linea con l’obiettivo di 1.5°C, di almeno il 65% entro il 2030. Andando quindi ben oltre l'obiettivo del 51% previsto dal PNRR e confermando il phase-out del carbone entro il 2025 senza ricorrere a nuove centrali a gas. L’Italia può centrare l’obiettivo climatico del 65% grazie soprattutto al contributo delle rinnovabili. Secondo Climate Analytics, nel nostro Paese è possibile raggiungere almeno il 60% nel mix energetico e fino al 90% nel mix elettrico entro il 2030. E arrivare al 100% di rinnovabili nel settore elettrico già nel 2035, creando così le condizioni per arrivare alla neutralità climatica ben prima del 2050. Una scelta già fatta dalla Germania, che si è impegnata a raggiungere la neutralità climatica entro il 2045 con il 100% di produzione elettrica rinnovabile entro il 2035.

Potenzialità confermate da Elettricità Futura che di recente ha ribadito che le sue imprese “assicurano da tempo la loro capacità di realizzare fino a 20 GW l’anno, se le autorizzazioni pubbliche riuscissero a reggere il ritmo (oggi marciano a circa 1 GW l’anno).”  Mentre per raggiungere l’obiettivo del 45% previsto da REPowerEU sono sufficienti circa 10 GW di nuovi impianti l’anno, ossia 85 GW di rinnovabili entro il 2030.

Per l’Italia, l’accelerazione delle rinnovabili coerente con il REPowerEU comporta benefici davvero importanti per l’economia, la società e l’ambiente secondo Elettricità Futura. Si tratta di 309 miliardi di euro di investimenti cumulati al 2030 del settore elettrico e della sua filiera industriale, 345 miliardi di benefici economici cumulati al 2030 in termini di valore aggiunto per filiera e indotto, 470.000 nuovi posti di lavoro nella filiera e nell’indotto elettrico nel 2030 (che si aggiungeranno ai circa 120.000 di oggi) e una riduzione del 75% delle emissioni di CO2 del settore elettrico nel 2030 rispetto al 1990.

Solo così sarà possibile vincere la sfida della duplice crisi, energetica e climatica, che rischia di mettere in ginocchio l’Italia.