La pandemia causata dal COVID 19 ha avuto un enorme impatto sulle abitudini ed i comportamenti dei cittadini, determinando, fra l’altro, una “temporanea” ma significativa modifica delle dinamiche del mercato petrolifero internazionale. Domanda, offerta ed evoluzione del prezzo del petrolio sono stati travolti sia da fenomeni oggettivi sia da gigantesche speculazioni di natura finanziaria che non si vedevano, in questa dimensione, da oltre un decennio. Paradossalmente, la stagnazione delle attività produttive ed economiche e la crisi dei mercati fisici è stata accompagnata da una vivacità incredibile dei mercati finanziari e da un rilancio della liquidità nelle borse petrolifere.
Si è trattato di un’operazione sapientemente costruita da alcuni leader della finanza mondiale che, a partire dai pochi dati oggettivi disponibili, hanno tradotto in previsioni pseudo scientifiche le aspettative depressive. Hanno descritto in dettaglio l’eventuale immediata caduta del prezzo del greggio al di sotto dei 10 doll/bbl come un dato di fatto, immediato, certo. Hanno pure aggiunto la previsione di una sua scontata futura ripresa dopo qualche mese.
Un quadro così netto e chiaro era un esplicito invito a scommettere in borsa con la certezza di vincere. Scommettere sulla caduta oggi vendendo allo scoperto per ricomprare domani prima della prevista ripresa. Nessun dubbio o incertezza sulla direzione del mercato o sulla dimensione della caduta della domanda. Nessun dubbio sulla riduzione dell’offerta. Non occorreva alcun dato, alcuna verifica. Era di nuovo la febbre dei futures come nel 2007.
È ripartita la corsa che ha spostato risorse finanziarie (dei piccoli risparmi e dei fondi di investimento) verso la commodity petrolifera in particolare del WTI. Stavolta, infatti, la febbre si è manifestata in tutta la sua virulenza sul NYMEX, la borsa petrolifera di New York, dove viene quotato il WTI (West Texas Intermediate). Il Brent è stato influenzato di rimando ed in misura più ridotta.
La dimensione della speculazione, esplosa nel giro di pochi giorni, ha prodotto, ad aprile 2020, un risultato storico mai verificatosi prima. La quotazione del WTI è stata fissata a -37 doll/bbl ovvero ad un valore negativo.
Un prezzo negativo è un assurdo concettuale ed un non senso dal punto di vista legale. Descrive una situazione in cui il produttore, anziché fermare la produzione, chiede al compratore di prelevare comunque il petrolio non solo senza pagare nulla ma anzi ricevendo un premio di 37 doll/bbl per ogni barile prelevato.
Inutile dire che neanche un singolo barile fisico è stato consegnato da un produttore ad un compratore a queste condizioni. Eppure, autorevoli analisti e giornalisti famosi sono stati abbagliati da questo valore negativo ed hanno descritto scenari in cui “il petrolio non lo vuole più nessuno. I Paesi produttori te lo regalano, anzi, ti danno pure 37 dollari di compensazione (un regalo) per ogni barile che ti porti via”. Ovviamente, il messaggio ha colpito il grande pubblico, che lo ha recepito.
In pratica, la manovra speculativa indotta dalle grandi banche di affari è riuscita a creare una volatilità del prezzo del WTI di oltre 90 doll/bbl (da 53 a -37 doll/bbl), non differente da quanto si ebbe nel 2007-2008, quando il prezzo oscillò fra 70 e 150 doll/bbl. Un capolavoro di comunicazione e manipolazione del mercato.
La pubblicazione del Bloomberg Billionaires Index ha evidenziato come alcuni grandi investitori nel NYMEX abbiano guadagnato 51 miliardi di dollari in un solo trimestre. La pandemia è risultata essere una vera gigantesca manna piovuta dal cielo.
La particolarità del processo speculativo, questa volta, è stato il coinvolgimento di milioni di piccoli risparmiatori, che hanno concentrato la loro attività su un derivato, il CFD (Contracts for Differences), acquistabile in lotti compatibili con la loro disponibilità finanziaria, spingendone in alto il prezzo da pochi cents/bbl fino a diverse decine di doll/bbl. Questo fenomeno, assolutamente straordinario, ha provocato un impazzimento dell’algoritmo di fissazione del prezzo giornaliero del WTI in borsa, che avviene attraverso la combinazione del prezzo del mese successivo meno una correzione sulla base del valore del CFD.
In quel particolare momento, sottrarre dal valore del WTI (10 doll/bbl) quello del CFD (40-50 dol/bbl) ha generato il prezzo negativo del WTI. Un incidente borsistico dovuto alla combinazione di due fenomeni speculativi, uno direttamente sul WTI l’altro su un derivato (CFD).
È bene ribadirlo, nessun barile fisico nel mondo petrolifero è stato “mai” scambiato a -37 doll/bbl. Un numero negativo non può essere assunto come riferimento contrattuale ed impone una ri-negoziazione fra le parti.
Incidente borsistico, quindi, che ha messo in evidenza, ancora una volta, la fragilità del sistema di fissazione dei prezzi del petrolio ed il peso relativo fra mercato fisico, in cui si muovono paesi produttori e compagnie petrolifere, e mercato finanziario, in cui operano le grandi strutture finanziarie. I dati storici mostrano lo strapotere dei mercati finanziari rispetto a quello fisico, in un rapporto di oltre 20 a 1.
Tuttavia, passata la momentanea bufera, è prevalsa nell’opinione pubblica, nella grande stampa, fra gli esperti di energia, l’assuefazione all’idea che il capitolo petrolio è ormai chiuso. Rimane solo da gestire, ancora per un pò, qualche residuo cascame. Nulla di cui preoccuparsi e soprattutto nulla su cui investire risorse intellettuali e finanziarie.
Per mesi, non abbiamo più guardato all’evoluzione del prezzo del greggio e, soprattutto, dei prodotti petroliferi. Poi, all’improvviso, ci siamo ritrovati il Brent sopra i 60 doll/bbl ed il prezzo della benzina intorno a 2.00 euro/litro. Il tutto nel silenzio quasi assoluto della stampa e degli analisti (probabilmente, ancora psicologicamente allineati agli scenari del crollo).
Ci sono delle lezioni da imparare e delle riflessioni da sviluppare.
Cosa ha reso possibile la gigantesca speculazione finanziaria innescata dalle banche di affari? Direi almeno due fattori determinanti.
La prima è la mancanza di trasparenza sui dati della domanda ed offerta del mercato petrolifero. A parte alcuni dati settimanali a campione pubblicati negli USA, a livello mondiale l’unica fonte che raccoglie i dati dei paesi OECD è la IEA (International Energy Agency). Questi dati riescono a fornire un quadro piuttosto stabile con un ritardo di circa 9-12 mesi. I dati pubblicati, relativi a periodi più recenti, sono solo stime degli esperti della IEA con il supporto di modelli basati sull’evoluzione del Brent. Se il Brent sale, si stima la domanda in crescita e viceversa. Nelle analisi di brevissimo periodo (1-3 mesi), gli analisti finanziari hanno uno spazio vuoto da colmare con le loro stime soggettive e la loro discrezionalità. E, ovviamente, possono determinare ed orientare le aspettative degli operatori. È successo durante i primi mesi della pandemia. I dati di cui oggi disponiamo ci mostrano che nel momento peggiore (aprile-maggio 2020) la riduzione di domanda fu di circa il 30%, mentre la percezione, basata sulle analisi diffuse dalle istituzioni finanziarie, sembrava indicare una caduta dei consumi di quasi il 60-70%. Già a partire da giugno-luglio, la riduzione della domanda, rispetto all’anno precedente, si era mediamente assestata su valori solo inferiori al 10%.
La seconda è la ricerca costante da parte dei gestori di grandi liquidità finanziarie di businesssu cui investire con redditività paragonabili a quelle registrate storicamente nella borsa petrolifera (uno studio di ABN-AMRO mostrava una redditività media del 40%).
Il clima di “rivoluzione verde” che il mainstream ha imposto al dibattito energetico sta modificando il tradizionale panorama degli investimenti delle banche di affari. A parte la grande incursione sul WTI (occasione ghiottissima a rischio zero), si è alla costante ricerca di obiettivi finanziari dipinti di verde su cui indirizzare gli investitori. Abbiamo esempi di quotazioni di assets cosiddetti verdi il cui valore risulta assolutamente sproporzionato rispetto alla reale dimensione del business sottostante. La liquidità viene spostata in funzione delle aspettative che si riescono a creare.
In questo contesto, rischia di passare assolutamente inosservato il dramma delle inefficienze strutturali dell’industria petrolifera, che finiranno per esplodere in tempi piuttosto ravvicinati, mettendo in crisi la continuità dei flussi di approvvigionamento a livello mondiale.
Le compagnie petrolifere hanno ormai il timore di parlare pubblicamente del loro business storico e sembrano essere diventate società esclusivamente impegnate nel solare, eolico e un po' nella produzione di biofuel (ma chi sta producendo 90 milioni di barili al giorno di petrolio in giro per il mondo?). Hanno da tempo rinunciato a portare avanti una battaglia culturale per fare chiarezza sui temi dell’energia e sulle priorità inevitabili per mantenere un equilibrio fra abbattimento delle emissioni e garanzia dello sviluppo.
L’Oil & Gas sembra non li riguardi quasi più. Da tempo hanno abbandonato le attività di raffinazione, che sono state cedute a società minori, che gestiscono l’esistente (almeno finché produce un reddito marginale), ma che non sono in grado di farsi carico degli investimenti strategici indispensabili per garantire un futuro agli impianti.
Gli investimenti nel settore Upstream si stanno riducendo significativamente e prima o poi dovremo fare i conti con l’arresto e l’inversione del trend di crescita dell’offerta mondiale di idrocarburi.
Tutto questo ci fa vivere in due mondi paralleli. Uno reale e uno in cui vi è la diffusa illusoria convinzione che ormai il mondo ha girato le spalle al petrolio e, molto presto, all’intera gamma delle fonti fossili.
A meno di essere certi di poter contare su fonti energetiche e su materie prime alternative, gli idrocarburi continueranno a servirci per la petrolchimica, i nuovi materiali (compositi di carbonio), i trasporti aerei, i trasporti su terra e su mare. E qui il fattore tempo è determinante. Il sistema industriale della trasformazione del petrolio nei suoi derivati essenziali è profondamente in crisi e non è in grado di assicurarci la continuità della copertura del nostro fabbisogno durante il periodo della transizione. Questo sistema è già oggi molto fragile e può andare in blackout prima di ogni nostra previsione (Texas ammonisce).
Servirebbero investimenti importanti in due direzioni. La prima per tenere in vita gli impianti essenziali durante la transizione. La seconda per migliorare decisamente e da subito la qualità dei prodotti da immettere sul mercato, favorendo integrazioni con tecnologie innovative, come quelle dei biofuel. Per farlo occorrono investimenti importanti, che nessuno, oggi, è disponibile o in grado di affrontare.
Purtroppo, questo tema non è sexy, non è di moda. Si preferisce ignorare il fatto che alla stazione di servizio benzine e gasolio sono di nuovo cari. Al più, se proprio fossimo costretti a parlarne, ce la caveremmo parlando male dell’OPEC.