Ormai è assodato. Entro i confini dell’Unione europea la decarbonizzazione si fa anche svuotando i portafogli finanziari dei grandi investitori dagli asset fossili e soprattutto carboniferi. Al contrario, la stragrande maggioranza degli investitori statunitensi e asiatici sembra ancora restia a considerare la lotta ai cambiamenti climatici un affare anche finanziario. È l’esito del report pubblicato da Urgewald, Reclaim Finance, Rainforest Action Network, 350.org Japan e altre 25 ONG che da anni sono impegnate nel quantificare e denunciare il ruolo della finanza dietro l'industria globale del carbone.

Se gli investitori statunitensi detengono, su scala globale, il 58% degli investimenti istituzionali nell'industria del carbone, le banche commerciali giapponesi e cinesi si aggiudicano il secondo gradino del podio. Fondi pensione, fondi comuni di investimento, gestori patrimoniali, compagnie di assicurazione, hedge fund, banche commerciali, fondi sovrani e altri tipi di investitori istituzionali: il censimento svolto a gennaio 2021 conta 4.488 investitori istituzionali che, a livello globale, detengono investimenti per un totale di 1.000 miliardi lungo la catena del valore del carbone destinato alla generazione elettrica.

Con 86 miliardi di dollari di partecipazioni nell’industria carbonifera, la società di fondi comuni di investimento statunitense Vanguard risulta essere il più grande investitore istituzionale del mondo, tallonata da BlackRock che detiene investimenti per oltre 84 miliardi di dollari. Il che spiega la dimensione di un fenomeno che negli USA raggiunge un valore complessivo pari a 602 miliardi di dollari. Per questo la Rainforest Action Network, tra i firmatari del report, ha accolto con favore l'ordine esecutivo del presidente Biden di porre fine ai finanziamenti pubblici per i combustibili fossili all'estero, pur sottolineando l’urgenza di mettere in discussione il ruolo di Wall Street che è a tutti gli effetti uno dei motori dell'inquinamento climatico in tutto il mondo.

La seconda quota più alta di investimenti istituzionali nell'industria del carbone, con partecipazioni per 81 miliardi di dollari, riguarda il Giappone. Il fondo di investimento pensionistico governativo giapponese detiene da solo obbligazioni e azioni per un valore di 29 miliardi di dollari. Il terzo gruppo più grande è costituito dagli investitori britannici, le cui partecipazioni nell'industria del carbone ammontano a 47 miliardi di dollari. Un paradosso per un paese che ha recentemente annunciato che porrà termine ai finanziamenti pubblici per i progetti sui combustibili fossili all'estero entro il 2021.

La Global Coal Exit List, il database curato da Urgewald sui principali operatori dell’industria carbonifera globale, ha identificato 381 banche commerciali che negli ultimi 2 anni hanno fornito prestiti per un totale di 315 miliardi di dollari al dark side dell'industria energetica. I primi 3 istituti di credito sono le banche giapponesi Mizuho (22 miliardi di dollari), Sumitomo Mitsui Banking Corporation (21 miliardi di dollari) e Mitsubishi UFJ Financial Group (18 miliardi di dollari). Seguono Citigroup (13,5 miliardi di dollari) e Barclays (13,4 miliardi di dollari).

Una ripartizione regionale dei finanziatori di diversi paesi mostra come le banche giapponesi abbiano fornito collettivamente 76 miliardi di dollari in prestiti all'industria del carbone tra ottobre 2018 e ottobre 2020. Dopo di loro le banche degli Stati Uniti (68 miliardi di dollari) e le banche del Regno Unito (22 miliardi di dollari). Le banche commerciali di questi tre paesi da sole hanno rappresentato il 52% del totale dei prestiti alle società nella Global Coal Exit List negli ultimi due anni.

Nello stesso periodo di tempo, 427 banche commerciali hanno convogliato oltre 808 miliardi di dollari statunitensi verso le società della Global Coal Exit List. I primi 10 sottoscrittori del mondo sono tutte istituzioni finanziarie cinesi. La Top-Five vede in ordine decrescente l’Industrial and Commercial Bank of China (37 miliardi di dollari), la China International Trust and Investment Corporation (32 miliardi di dollari), la Shanghai Pudong Development Bank (28 miliardi di dollari), la Bank of China (24 miliardi di dollari) e il China Everbright Group (23,7 miliardi di dollari). Mentre le banche cinesi rappresentano meno del 6% del totale dei prestiti all'industria del carbone, costituiscono il 58% delle sottoscrizioni, per un totale di 467 miliardi di dollari incanalati nell'industria del carbone negli ultimi due anni. Seguono le banche statunitensi (104 miliardi di dollari), giapponesi (59 miliardi di dollari), indiane (36 miliardi di dollari) e britanniche (35 miliardi di dollari). Insieme, le banche di questi 5 paesi contano per l'87% delle sottoscrizioni “carbonifere” totali. La differenza fondamentale è che le banche cinesi e indiane sottoscrivono quasi esclusivamente obbligazioni e condividono emissioni di società del carbone dei rispettivi paesi, mentre le banche statunitensi, giapponesi e britanniche forniscono servizi di sottoscrizione alle società del carbone di tutto il mondo.

Il fatto più preoccupante è che il sostegno delle banche commerciali all'industria del carbone è aumentato dalla sottoscrizione dell’Accordo di Parigi in poi. Mentre i prestiti diretti sono aumentati nel 2017 per poi diminuire negli gli anni successivi, le sottoscrizioni di azioni e obbligazioni sono cresciute costantemente dal 2016. Con il risultato che oggi le banche commerciali stanno canalizzando più denaro “inquinante” rispetto al 2016. Anche nel 2020, nonostante la pandemia, i prestiti e le sottoscrizioni delle banche a sostegno dell'industria del carbone sono ammontati a 456 miliardi di dollari nei primi 10 mesi del 2020. Si tratta di 3 miliardi di dollari in più rispetto a quanto fornito durante lo stesso periodo di riferimento del 2019.

Come ha affermato Yann Louvel, analista politico di Reclaim Finance, questi numeri fanno riflettere sul concetto di impegno climatico da parte degli attori finanziari, banche in primis. Che pur registrano passi in avanti rispetto al passato. Secondo il “Coal Policy Tool”, il database della stessa Reclaim Finance, sarebbero 88 le banche commerciali che ad oggi hanno adottato una politica di esclusione rispetto al carbone, anche se solo quattro tra loro possono dirsi “robuste”. Purtroppo, spiega Louvel, la stragrande maggioranza delle politiche di esclusione ha così tante scappatoie che il loro impatto è quasi privo di significato. È il caso di Citigroup, che ha annunciato l’eliminazione graduale del carbone entro il 2030 ma che applica l’esclusione solo alle aziende che generano almeno il 25% dei loro ricavi dall'estrazione di carbone termico.

Esistono anche casi virtuosi: assicurazioni come AXA, banche come Crédit Mutuel, UniCredit e Desjardins o gestori patrimoniali come Ostrum hanno già escluso la maggior parte delle società della Global Coal Exit List dai loro portafogli. Ma se non spostiamo l’attenzione e la pressione sugli attori finanziari negli Stati Uniti, in Giappone, Cina, Regno Unito e altri paesi chiave rischiamo che anche le politiche climatiche europee lascino il tempo che trovino. Gli annunci di zero emissioni nette al 2050 mascherano il rifiuto delle istituzioni finanziarie di intraprendere un'azione decisiva ora. La maggior parte del finanziamento e degli investimenti nel carbone deve essere terminata prima del 2030. Questo è il decennio che conta.