Ci si interroga di frequente su quel che sarà dell’energia dopo il virus; e sembra prevalere l’ipotesi per cui il virus favorirà, e anzi accelererà, la decarbonizzazione. Il tema viene di regola interpretato in due tonalità. La prima è che il virus dimostra l’insostenibilità del nostro “sistema economico di ingiustizia sociale e di disprezzo per la cura del creato” (la citazione è di Papa Francesco), e che perciò ci impone quasi normativamente un abbandono del nostro modo di addomesticare energia fossile. La tonalità alternativa declina invece più laicamente il modo in cui il lockdown ha cambiato comportamenti ed abitudini; e ne deriva che il dopo virus non sarà un ritorno alla normalità del passato, ma il graduale affermarsi e consolidarsi di una “nuova normalità” meno fossile e oggi ancora in divenire.
Confesso che trovo ancora un po’ prematura la riflessione sulla nuova normalità; e che per converso mi sfugge il nesso causale tra virus ed insostenibilità del nostro modo di sviluppo. Mi provo ad argomentare.
Il virus, anzitutto. Il lockdown se ne è (temporaneamente?) andato; ma Covid-19 resta. E sin che resta mi sembra difficile far modelli di domani. Siamo abituati a modellare assumendo cicli economici; ma non siamo assolutamente attrezzati per quelli epidemiologici. Datemi un vaccino, e vi darò un modello. Fino a ieri eravamo rinchiusi ed oggi col virus ci conviviamo all’aria aperta. Più dura la convivenza (o addirittura il ritorno alla reclusione) e più modifica i nostri comportamenti di lavoro e sociali (insomma ci spinge alla ricerca dell’equilibrio di una nuova normalità). Ne riparliamo dopo il vaccino.
Per quanto riguarda l’energia, il virus, o meglio il lockdown ha causato un crollo della domanda, di cui, tra tutte, si segnalano due conseguenze. La prima è che il crollo della domanda elettrica ha comportato un importante test di resilienza della rete. Nell’aprile di quest’anno i consumi elettrici sono calati del 17,9% rispetto al 2019; a maggio del 10,3%. Il calo dei consumi, via merit order e priorità di dispacciamento, è andato pressoché per intero a carico della generazione fossile; con le rinnovabili che hanno perciò generato il 47% dell’elettricità consumata ad aprile ed il 51,2% di quella generata a maggio. Insomma, la rete ha messo in circuito circa un 25% di generazione intermittente, e lo stress test ha funzionato.
Qui abbiamo sperimentato la resilienza al nadir della domanda; e in California lo stress del suo picco. Laddove in California la rete (ma il virus non c’entra) non è per tanti motivi riuscita a reggere ed è stato blackout per tutti. Forse il virus involontariamente può aiutarci a capire che è lo sviluppo dell’infrastruttura che dovrebbe dettare nel tempo il mix della generazione (e dunque i tempi della decarbonizzazione elettrica), e non viceversa.
La seconda è che il blocco ha indotto il crollo della mobilità, e forse ne sta modificando a futura memoria le forme. Abbiamo scoperto che da remoto possiamo lavorare, comunicare e persino provvedere ai nostri consumi, alimentari e non. L’attesa nuova normalità della mobilità è però ancora da costruire, e non è comunque detto che abbia poi un impatto forte sui nostri consumi di prodotti del petrolio. Lo smart working, se lo proiettiamo globalmente, è ancora questione per pochi; ed in molti casi si tratta di pochi privilegiati. E in tema di consumi assoluti, la nuova normalità sembra parente strettissima della precedente. Il virus ha fatto crollare la domanda da 100 ad una settantina di milioni di barili/giorno; ma adesso che siamo ancora in regime di convivenza e non di vaccino siamo già tornati a 94, ed i barili che ancora mancano sono per lo più in conto al crollo del trasporto aereo (unica novità che, tra rifiuto dell’assembramento e conversione informatica delle riunioni di lavoro, rischia di farsi strutturale).
Sul modello di sviluppo chi vuole può poi appassionarsi al dibattito tra fautori della decrescita francescana e teorici di quel che saranno i bengodiani tassi di crescita della decarbonizzazione. Il nostro più limitato tema è se e come il virus possa influire sui tempi della nostra transizione dal fossile. Verrebbe subito da osservare che i tempi della transizione non li detta la pandemia ma più terrenamente li dettano investimenti e tecnologia (poi anche il consenso, che se rivince Trump si va più adagio; ma qui transeat). Sulla tecnologia il virus ci ha trovato che marciavamo apparentemente spediti. Il decennio è cominciato che si aveva contezza di poter fare alluminio senza emettere e persino acciaio a idrogeno (poi non siamo neanche ancora realizzativamente ai prototipi; ma stiamo parlando, appunto, di tecnologia, e non di produzione); e soprattutto che si avevano e si hanno grandi speranze sul futuro dei sistemi di accumulo.
Poi però c’è il tema degli investimenti necessari a fare della tecnologia prassi di massa, che non è tema solo della loro misura ma anche e soprattutto del fatto che, senza supporto pubblico (dal feed in al finanziamento agevolato all’investimento diretto a quant’altro) e con giusto il mercato e il privato che, quasi contro natura, dovrebbe investire a rischio, non si va quasi neanche a cominciare. Goldman Sachs ipotizza che per essere coerenti agli obiettivi climatici ci toccherebbe globalmente investire da qui al 2030 14.000 miliardi di dollari; ed è forse tempo che iniziamo a cercarli.
Il virus è arrivato mentre la UE dottorava di Green Deal; adesso però la priorità, a fronte della necessità di investimento, è di capire cosa faremo dei Recovery Funds e assimilati. Il modo in cui utilizzeremo i fiscal recovery packages ci dirà (e solo a posteriori) se il virus abbia accelerato o rallentato la transizione.
Viviamo un periodo che rende difficile per un numero sempre maggiore di famiglie mantenere i propri consumi primari, e ad un numero crescente di imprese di mantenere una realtà produttiva. Si avrà da investire su progetti possibilmente selezionati, tra l’altro, sulla base del potenziale di moltiplicatore economico e della capacità di creare occupazione, e non sempre questo risulterà coerente con il dare priorità agli investimenti che inducono decarbonizzazione. È politicamente molto più facile rilanciare l’edilizia mettendoci l’etichetta “efficienza energetica” che ribaltare in tariffa i costi di nuovi investimenti infrastrutturali.
Per ora, gli effetti del virus sono comunque contingenti. L’attività produttiva si è temporaneamente fermata ed emissioni ed inquinamento si sono adeguati. Qualche anima candida e priva di problemi di sussistenza ci ha pure cantato l’elogio del cielo infine blu. In realtà è stata, e continua ad essere, una sorta di stato di sospensione. Il virus che ci sospende, ed insieme a noi sospende l’emissione. E la sospensione che in qualche modo virtualmente ci allunga i tempi del cambiamento climatico; ovvero, come scritto in un recente report, “Covid only buys humanity another year of allowable emissions”.
Il virus, di per sé, ci lascia giusto sospesi. So che magari ci spiace, ma, per quel che sarà, ci tocca rivolgerci alla politica. Saranno le decisioni pubbliche di spesa e di investimento, e dunque in definitiva saremo noi a decidere se la pandemia ci avrà fatto rallentare o accelerare.