50 miliardi di dispositivi saranno connessi entro la fine del 2020. Dalla nascita dell’Internet of Things a cavallo tra il 2008 e il 2009, ovvero il momento in cui il numero dei dispositivi connessi ha superato il numero degli abitanti della Terra, i device intelligenti sono più che quintuplicati in un decennio. Di conseguenza, la quantità di dati prodotti è aumentata esponenzialmente, proiettando il genere umano verso una società digitale e creando una vera e propria realtà parallela connessa. La semplificazione della vita quotidiana, l’automazione delle industrie e l’urbanizzazione intelligente, però, si caricano sulle spalle ingenti oneri, soprattutto in un momento di emergenza climatica riconosciuto (quasi unanimemente) a livello globale. In un mondo in cui tutto è connesso e digitale, infatti, il fabbisogno energetico aumenta esponenzialmente e bisogna indagare l’origine di questa energia.

Quando si parla di dati, è bene specificare che non è solo l’aumento della quantità a influire sullo spazio necessario per immagazzinarli. Se agli inizi del 2000 i file più utilizzati erano foto, Pdf, documenti Word, Excel e Power-Point, solo un decennio dopo l’esplosione del World Wide Web ha aperto le porte a contenuti dal volume 1.000 volte superiore. Si pensi a Youtube, all’infinito database di informazioni che è Wikipedia o alla quantità di dati prodotti dai social media. La velocità di elaborazione dei dati, sempre più proiettata verso la necessità di risposte real-time, e la modalità di raccolta dei dati, più o meno strutturata, sono gli altri fattori da tenere in considerazione.

Prendiamo alcuni numeri. Secondo Visual Capitalist in un solo minuto nel 2018 sono avvenuti: oltre 3,7 milioni di ricerche su Google, 800.000 doll. di acquisti online, 38 milioni di messaggi su whatsapp, 4,3 milioni di visualizzazioni video su Youtube e oltre 187 milioni di email inviate. Se oggi l’industria dell’ICT è responsabile per il 10% della domanda di energia mondiale, nel 2030 questo raggiungerà il 20%. E non è difficile da immaginare, se si pensa ai trend del momento: il mondo aziendale, e in particolare l’industria, sta attraversando una quarta (o quinta) rivoluzione basata sull’utilizzo di dati, per cui viene creato un duplicato virtuale per ogni attività svolta; le città stanno diventando sempre più smart, ma è bene tenere presente che ogni azione genererà dati da immagazzinare ed elaborare affinché tutto funzioni alla perfezione.

A questo punto, la domanda che sorge spontanea è: dove vengono immagazzinati tutte queste informazioni e dove vengono elaborate?

L’infrastruttura più diffusa per conservare ed elaborare i dati viene chiamata cloud, ma è tutt’altro che una nuvoletta vaporosa come farebbe presagire il nome. In realtà, dietro al cloud si nascondono i data center, distese di server localizzati in enormi strutture o capannoni, spesso lontani dalla vista dei cittadini. Per rendere l’idea, si stima che Google e Amazon insieme abbiano più di 1 milione di server, e che il data center di Microsoft a Chicago sia di oltre 700.000 mq: tre stadi di Wembley, uno di fianco all’altro. E’ evidente che tali strutture richiedono ingenti dispendi di energia e alti costi ambientali. Oltre agli effetti negativi sull’ecosistema naturale locale, i veri oneri ambientali ricadono sulle attività di conservazione e di trasferimento dei dati.

Per quanto riguarda lo storage, è necessario che i server siano attivi e quindi che il data center sia alimentato con elettricità. Ma il costo principale, che consuma fino al 40% dell’energia totale, è richiesto dai sistemi di ventilazione e raffreddamento. Infatti, migliaia di server costantemente attivi generano calore e, per non fare surriscaldare i server, è necessario raffreddare queste strutture. Inoltre, anche trasferire i dati dall’utente al server e viceversa richiede un alto input di energia.

Se si restringe l’analisi dell’impatto ambientale dei big data ai soli data center si rischia di non considerare una fetta importante di energia ed emissioni, ovvero le fonti di produzione dei dati. Telefoni, computer, tv, sensori e altri dispositivi consumano fino al 30% dell’energia richiesta dalla digitalizzazione, e la loro produzione incide su un altro 15%. Per fare un esempio, un computer acceso e connesso in una giornata tipo di lavoro di otto ore consuma circa 600kWh, per un emissione di 175kg di CO2 all’anno.

Allo stato dell’arte, è ancora difficile calcolare l’impatto della vita digitale. Da un lato, smart working e e-learning riducono le emissioni legate al trasporto e al riscaldamento, l’intelligenza artificiale di Google Maps riduce i consumi dovuti al traffico e l’automazione ottimizza i processi dell’industria. Dall’altro, attività altrettanto comuni come acquistare online e guardare film in streaming comportano costi ambientali nascosti. In queste considerazioni, è necessario distinguere la fase di ‘deployment’, più onerosa in quanto richiede nuove materie prime e energia, da quella operativa, dove i costi ambientali diretti si riducono ma cresce l’energia richiesta per la gestione dei dati.

Data la consapevolezza sulle emissioni e sugli impatti ambientali della digitalizzazione, le aziende e la società sono già attivi per trovare soluzioni concrete. Nel 2018, i servizi di Google Cloud sono diventati carbon neutral, cioè a emissioni zero, e Amazon, Facebook e Microsoft si sono impegnati al raggiungimento del 100% di energia proveniente da fonti rinnovabili. Esperti del settore stanno indagando la possibilità di trasferire i data center in paesi dal clima freddo per raffreddare in maniera naturale le strutture, mentre altri stanno studiando l’implementazione di sistemi circolari per trasformare il calore generato dai server in energia elettrica. Si tratta di soluzioni ibride e non definitive, che presentano numerose lacune in termini di sostenibilità e non considerano il problema nella sua interezza. Spostare il data center in Siberia, oltre a intaccare un ecosistema naturale intonso, riduce l’energia richiesta a raffreddarlo ma non quella per mantenerlo operativo.

Le soluzioni necessarie possono essere altre, più innovative, bottom-up e eco-friendly, che per fortuna iniziano ad emergere. Ad esempio, la possibilità di creare un data center distribuito basato su una tecnologia peer-to-peer, dove ogni utente contribuisce alla creazione del cloud possedendo un server. È il caso di Cubbit, giovane startup italiana, che con la sua tecnologia non richiede più le enormi infrastrutture centralizzate, arrivando fino ad un decimo di consumo di energia rispetto ai tradizionali data center. Anche Ecosia propone una soluzione innovativa alle emissioni causate dalle produzione di dati. Questo motore di ricerca green fa corrispondere a ogni ricerca la piantumazione di un albero, il metodo attualmente più efficace per compensare le emissioni di CO2. Infine, una soluzione lato device è rappresentata da Fairphone, il telefono modulare ‘costruito per durare’, progettato con materiali sostenibili e che vuole terminare la schiavitù dei lavoratori delle miniere. La cosa che accomuna queste tre startup è la mission: risolvere alla radice un problema legato alla digitalizzazione.

In generale, quando si parla di sostenibilità della digitalizzazione è importante affrontare la tematica in maniera sistemica, prendendo in considerazione ogni aspetto e ricaduta che la creazione di nuovi dati comporta. Se le aziende e la politica hanno un ruolo fondamentale nell’allineamento verso uno sviluppo sostenibile, quello che bisogna ricercare è un nuovo modello che metta sullo stesso piano gli aspetti economici, sociali e ambientali. Per questo, i primi attori della sostenibilità sono i cittadini, veri elettori nella vita quotidiana e influencer delle scelte aziendali. Se domani useremo Ecosia invece che Google, se preferiremo un Fairphone a un Iphone, se Cubbit sostituirà il nostro account Dropbox, staremo contribuendo attivamente alla soluzione.