Chi promuove e difende gli interessi fossili può esultare. Per chi si batte da sempre – e, in questo 2019, assieme a milioni di giovani e meno giovani scesi a manifestare - per cercare di evitare le conseguenze più catastrofiche del riscaldamento globale, la speranza “negoziale” rimane oggi appesa a un filo.
La COP25 di Madrid, mal presieduta dal governo cileno, doveva occuparsi essenzialmente di aspetti “tecnici”, come regolare il mercato globale delle emissioni di CO2, mentre la revisione dei contributi nazionali volontari di riduzione delle emissioni era comunque prevista – dal meccanismo quinquennale di revisione previsto dagli Accordi di Parigi – il prossimo anno. Ma lo stallo determinato alla COP25 è grave. Come per tutti i negoziati che hanno aspetti tecnici complessi, le “regole del gioco” sono fondamentali per la credibilità degli impegni: il diavolo sta nei dettagli. Dunque, un primo effetto del “fallimento” della COP25 – anche se una quota di lavoro negoziale è stata comunque risolta, come riporta online e con molti dettagli Carbonbrief – è stato quello di non aver concordato regole chiare e trasparenti per il mercato della CO2.
L’obiettivo di queste regole, ricomprese nell’articolo 6 del testo negoziale, è quello di evitare ad esempio doppi conteggi (attribuire il taglio delle emissioni sia ai Paesi che investono all’estero e sia ai Paesi che ricevono l’investimento) o di rimettere in circolo vecchi crediti generati nell’ambito del Protocollo di Kyoto. In assenza di regole rigorose, è stato stimato, doppi conteggi e riciclaggio di vecchi crediti avrebbero annacquato del 25% ogni obiettivo concordato, di fatto reso carta straccia gli Accordi di Parigi. Il governo brasiliano, con grande attivismo pari a quello con cui promuove la deforestazione in Amazzonia, ha sabotato ogni possibile chiusura.
Cosa rimane dunque dopo il fallimento della COP a Madrid? Sul tema “tecnico” un gruppo di Stati, di cui fanno parte i Paesi europei e i paesi più vulnerabili come le piccole isole, ha stabilito i principi inderogabili per regolare il mercato delle emissioni di CO2, la cui discussione verrà ripresa il prossimo giugno a Bonn. Sul piano politico l’Accordo di Parigi ne esce certo assai malconcio, ma è ancora in piedi. E il 2020 diventa dunque l’anno cruciale per cercare di vincere le resistenze del fronte fossile: la partita finale si gioca tra Bonn in giugno, la “pre-COP dei giovani” in Italia e quella a Glasgow di fine anno.
La “coalizione fossile” che ha prodotto lo stallo di Madrid oltre al Brasile, vede Australia, Stati Uniti, Russia, Arabia Saudita, India e Cina. Va ricordato che l’Accordo di Parigi fu preceduto da diverse iniziative tra le quali un accordo di cooperazione tecnologica tra Stati Uniti e Cina, promosso dall’amministrazione Obama. Oggi, come sappiamo, il contesto internazionale si è profondamente modificato e non in meglio: la “guerra dei dazi” promossa dall’amministrazione Trump sta di fatto ridefinendo – o cercando di ridefinire - gli equilibri e, in un certo senso, a rinegoziare la globalizzazione. E, invece, per affrontare la questione globale più grave – il riscaldamento del pianeta – serve un alto grado di cooperazione internazionale.
A breve l’unica possibilità, in attesa di sapere come andranno le prossime elezioni americane, sembra quella di provare a stabilire un asse di cooperazione tra l’UE e la Cina: il prossimo settembre è previsto a Lipsia in Germania un vertice euro-cinese in vista della COP26 di Glasgow.
Si tratterà di capire se la spinta alla trasformazione industriale delineata dal Green New Deal europeo – spinta, però, insufficiente per l’obiettivo più ambizioso del limite dei 1,5°C – e la conseguente revisione degli obiettivi di riduzione delle emissioni dell’UE, da definire prima dell’estate, potranno essere completati e rafforzati anche da un accordo tecnologico con la Cina. Del resto, se oggi le fonti rinnovabili presentano costi industriali molto ridotti - con una discesa dei costi più rapida di quella “sperata” dagli stessi scenari di Greenpeace - è anche merito dell’effetto combinato di politiche europee (come il pacchetto 2020 e gli incentivi) e dei grandi investimenti proprio della Cina, che di fatto ha doppiato in diversi anni quelli di UE e USA in questo campo. Un accordo euro-cinese nei settori rilevanti per la riduzione delle emissioni tra cui quello dell’auto elettrica, potrebbe forse consentire di affrontare la prossima COP di Glasgow con qualche chance in più. Nella speranza che negli USA nel frattempo la linea negazionista sul clima venga battuta.
La Cina però, assieme a Brasile, India e Sudafrica, chiede che i Paesi sviluppati mantengano la promessa di finanziare i Paesi più poveri. Questo, oltre a essere dovuto dopo tanti anni di annunci, aiuterebbe certo a ricostituire una “massa critica” per dare uno sbocco negoziale positivo e mantenere vivi gli Accordi di Parigi.