I roghi di questa estate 2019, che stanno distruggendo le grandi foreste del Pianeta, derivano spesso da scelte criminali che amplificano gli effetti di una crisi climatica che a lungo abbiamo voluto ignorare. Bruciando, le foreste rilasciano carbonio in atmosfera e noi tutti perdiamo un irripetibile patrimonio di diversità biologica.

Gli incendi “artici”, in Alaska, Canada, Groenlandia e soprattutto Siberia, nei primi mesi del 2019 hanno rilasciato ben oltre 150 milioni di tonnellate di CO2. In Siberia, questi incendi hanno interessato oltre 4 milioni di ettari di foresta anche per le scelte precise del Governo russo che (oltre a infischiarsene a lungo del cambiamento climatico: si spera che dopo questi disastri cambi idea) ha istituito delle cosiddette “zone di controllo” in cui – essendo i costi di intervento stimati superiori al valore delle foreste -  non si fa nulla per domare le fiamme. Visto che il 90% degli incendi di quest’estate è divampato in quelle aree, non vi è stato alcun intervento e per settimane c’è stato solo fuoco, con una devastante perdita di biodiversità. La taiga, il più grande bioma planetario, è abitata da lupi, orsi, zibellini, cervi, alci, cinghiali e centinaia di altre specie il cui habitat è stato carbonizzato per estensioni inimmaginabili. Come se non bastasse, la fuliggine degli incendi depositandosi sui ghiacci artici ne riduce il potere riflettente (albedo) contribuendo ad un ulteriore aumento del riscaldamento globale. Non meno problematico l’impatto sanitario sulla qualità dell’aria per le città che, pur lontane dall’epicentro degli incendi, sono state investite da una nube di fumo.

All’altro capo del mondo, la stessa cosa è successa agli attoniti abitanti di San Paolo del Brasile quando la brezza tropicale invece di una ventata di rinfrescante umidità, nel primo pomeriggio dello scorso 21 agosto ha recapitato in città il fumo di distanti, immensi, roghi amazzonici. In seguito all’ovvio allarme dei cittadini, il Presidente Bolsonaro ha accusato le ONG di aver appiccato il fuoco: accusa curiosa da chi ha ridotto di 3,8 milioni di euro (cioè del 38%) il budget statale per la protezione dell’Amazzonia e ha cestinato l’Amazon Fund bloccando 65 milioni di euro destinati a proteggere la più grande foresta del mondo. Che Bolsonaro abbia inizialmente rifiutato i 20 milioni di dollari offerti dal G7 non è quindi sorprendente. Casomai, sorprende che sia stato poi “costretto” ad accettarli.

L’Amazzonia è un patrimonio non solo dei cittadini brasiliani (e, in primo luogo, dei circa 400 gruppi di nativi che la popolano) ma del Pianeta intero. È un ecosistema “vecchio” di oltre 50 milioni di anni che si stima contenere da 80 a 120 miliardi di tonnellate di carbonio che negli ultimi decenni sta però drasticamente riducendo la sua capacità di assorbire CO2. Negli ultimi anni, gli incendi hanno rilasciato in atmosfera mediamente 110 milioni di tCO2/anno e nel 2019 sarà certamente peggio. La foresta ovviamente è assai più che un deposito di carbonio: regola l’umidità e quindi il clima (compreso il ciclo delle piogge) in buona parte del continente americano e ospita una biodiversità in gran parte inesplorata: solo considerando piante e vertebrati, si scopre una nuova specie ogni tre giorni.

Tuttavia, dall'inizio dell'anno al 30 agosto si sono verificati 45.282 incendi. Tra il 28 e il 30 agosto scorsi le fiamme hanno colpito 42 aree naturali protette e 38 territori indigeni e il 29 agosto erano attivi 1256 roghi: in gran parte dolosi. C’è una indagine in corso sul perché le Autorità brasiliane hanno ignorato gli allarmi sulla “giornata dei fuochi” organizzata il 10 agosto scorso dagli “agricoltori” dell’area della BR-167 (una delle strade aperte nella foresta) cui è seguito un aumento del 300% degli incendi nella zona: il cambiamento climatico è complice di chi ha tutto l’interesse a distruggere l’Amazzonia per la produzione di carne e soia, per le risorse minerarie e altro ancora.

Se le foreste dell’Artico (soprattutto la Siberia) e l’Amazzonia hanno avuto risalto sui media di questa torrida estate, anche le altre due grandi aree forestali del Pianeta corrono gravi rischi. La foresta del bacino del Congo (seconda solo all’Amazzonia) contiene circa 85 miliardi di tonnellate di CO2 equivalente, ospitando non meno di 10.000 specie diverse. La siccità incombente potrebbe far propagare alla foresta i numerosi incendi (dal 21 al 28 agosto sono stati documentati 6.902 incendi in Angola e 3.395 incendi nella Repubblica Democratica del Congo) che percorrono aree vicine, coperte dalla savana. È già successo nel 2016 e ancora una volta questi incendi sono spesso collegati ad attività come estrazione di legname e petrolio, o alle attività agricole tra cui spicca una crescente spinta alla coltivazione di palme da olio.

L’olio di palma è una importante risorsa alimentare “di base” per milioni di persone e tale dovrebbe restare. La produzione è invece aumentata di 15 volte tra il 1980 e il 2014 per i crescenti usi nell’industria alimentare e cosmetica e rischia di incrementarsi ancora per produrre biocarburanti “verdi” che come noto da tempo verdi non sono affatto. L’ulteriore espansione di queste coltivazioni, in particolare nelle foreste del Sud Est Asiatico, potrebbe colpire il 54% e il 64% delle specie oggi minacciate di mammiferi e uccelli, rispettivamente. In Indonesia, tra gennaio e maggio 2019 sono stati distrutti 42.740 ettari di foresta. Eppure, la foresta torbiera indonesiana non solo conserva circa 28 milioni di tonnellate di carbonio ma è probabilmente l’ecosistema con la maggiore biodiversità del Pianeta: solo l’1% della superficie del Pianeta contiene il 10% delle piante note, il 17% delle specie di uccelli note e il 12% dei mammiferi noti – compresi gli oranghi: che tra caccia e deforestazione tra il 1999 e il 2015 sono stati uccisi a migliaia (c.a. 150.000). Un patrimonio che, assieme al nostro futuro, stiamo mandando in fumo per qualche biscotto, sciampo e le nostre “indispensabili” automobili.