2005: l’Unione Europea introduce l’ETS. 2017: l’Unione Europea riforma l’ETS. Tra le due date intercorrono 12 anni di modifiche, proposte, revisioni, ricorsi alla Corte di Giustizia europea, dibattiti, pareri di esperti, consultazioni delle parti, riforme, decisioni della stessa Corte. In ultimo, il sistema non funziona come dovrebbe. I prezzi delle quote di CO2 sono troppo bassi - circa 5 €/ton - e dunque non stimolano quel processo di switch dalle fonti più inquinanti a quelle più pulite - ad esempio dal carbone al gas - che rappresenta il fine intermedio dell’ETS, funzionale a quello ultimo, la riduzione delle emissioni. Di qui la proposta di direttiva approvata dal Parlamento europeo circa un mese fa che prevede:
- riduzione annua delle quote pari al 2,2%, invece dell’1,7% precedentemente ipotizzato;
- cancellazione di 800 milioni di quote di surplus a partire dal 2021;
- espansione della Market Stability Reserve (MSR) che potrà assorbire fino al 24% del surplus di quote;
- impiego dei ricavi delle aste per finanziare due fondi tesi a favorire l’innovazione nel campo della CCS (Carbon Capture and Storage) e delle rinnovabili;
- estensione dell’ETS ai trasporti via mare a partire dal 2023;
- riduzione del 10%, rispetto al periodo 2014-2016, delle quote del settore aviazione.
Dunque il prezzo è basso e contraendo l’offerta la Commissione spera di stimolarlo, ovvero tenta di contrastare la situazione odierna, l’eccesso di offerta. Le cause sarebbero essenzialmente tre1: 1) crisi economica che, rallentando la domanda elettrica e la crescita del reddito, attenua le emissioni e indebolisce la domanda di quote; 2) espansione delle fonti rinnovabili, che opera in modo analogo al punto precedente; 3) utilizzo di crediti internazionali generati sul mercato internazionale da meccanismi quali il CDM e la JI, che operano come sostituiti delle quote ETS e ne riducono, quindi, la domanda. Va qui sottolineato che la possibilità di prezzi troppo bassi, o anche troppo alti, è intrinseca a un meccanismo basato sui permessi negoziabili. Esso fissa un tetto alle emissioni e, come conseguenza – data una certa domanda di quote – il prezzo emerge automaticamente. Il tetto è la variabile indipendente, sotto il controllo del policy maker, mentre il prezzo è la variabile dipendente, che per la natura del meccanismo sfugge al controllo del policy marker. Al contrario, un meccanismo basato sulla tassazione ambientale opera in modo opposto: il prezzo, ovvero la tassa, è la variabile indipendente, mentre l’ammontare di emissioni è quella dipendente. Con i permessi, c’è certezza sul volume delle emissioni e incertezza sul prezzo, viceversa con la tassa.
Nei primi anni 2000, l’Unione Europea optò in favore dei tradable permits quale strumento principe del controllo delle emissioni di carbonio. Ciò accadde dopo un decennio di dibattito sul doppio dividendo (riduzione delle emissioni e incremento dell’occupazione) associato alla tassazione ambientale. Nel 2005 partì il primo periodo dell’ETS e, a quel punto, il dado era tratto. Alla biforcazione delle policy, l’UE optò per i permessi di inquinamento abbandonando la via della carbon tax.
E’ interessante riflettere sul fatto che la scelta venne compiuta dopo anni di opposizione europea, nell’ambito del negoziato internazionale post-Kyoto, ai meccanismi di flessibilità voluti dagli USA, di cui l’Emissions Trading era un pezzo. In altri termini, l’Unione Europea mutua dagli Stati Uniti proprio quel meccanismo al quale per anni si è opposta e lo mette al centro della propria politica climatica. Nulla di male in tutto questo, se non il fatto che la storia dell’Emissions Trading americano mostrava chiaramente la possibilità dell’erraticità dei prezzi. Proprio nel 2005, l’anno di introduzione dell’ETS, William Nordhaus scriveva: “SO2 trading prices have varied from a low of $70 per ton in 1996 to $1500 per ton in late 2005. SO2 allowances have a monthly volatility of 10 percent and an annual volatility of 43 percent over the last decade (…) sulfur prices are much more volatile than oil prices or stock-market prices”2. Si potrebbe affermare che la variabilità del prezzo è il costo che il regolatore paga per tenere sotto controllo, con esattezza, le emissioni. Alternativamente, con una carbon tax, il regolatore avrebbe potuto abdicare al controllo esatto delle emissioni in cambio della certezza del prezzo pagato per unità di emissione. Infatti, il sistema si chiama cap and trade, e nel termine trade c’è tutta l’incertezza associata al mercato. I prezzi possono variare, e anche di molto: ciò è intrinseco al meccanismo. Mutatis mutandis, lo stesso fenomeno accade nella politica monetaria: si può controllare la massa monetaria oppure il tasso di interesse, ma non entrambi3.
Ora però il policy maker - la Commissione - vede nel prezzo esageratamente basso un elemento tale da rendere poco utile, e forse inutile, lo strumento concepito. E l’evidenza è amplificata dalla complessità del meccanismo, che prevede un mercato, degli scambi, contabilità delle emissioni, enti emittenti, certificatori, ecc. Di qui la proposta di una riforma che ambisce a riportare il prezzo all’interno di una fascia più consona. I cambiamenti previsti sono in parte strutturali – riduzione annua delle quote pari al 2,2% (incremento del linear reduction factor) e cancellazione di 800 mil. ton. di surplus – in parte contingenti – accantonamento delle quote non allocate nella riserva stabilizzatrice (MSR). E’ possibile che questi tre strumenti, contraendo l’offerta, possano riportare il prezzo in un territorio nel quale il segnale che da esso diparte dia luogo a fuel switch. Non vi è certezza che ciò accada ma è indubbio che la diminuzione dell’offerta rappresenti un passo nella giusta direzione.
Ciò che invece appare meno convincente è l’insieme dei meccanismi proposti, che ha l’unico elemento di flessibilità nella Market Stability Reserve, laddove la cancellazione del surplus e l’incremento del linear reduction factor rappresentano variazioni rigide del quadro, once and for all. Ma l’operazione di stabilizzazione del prezzo richiede, al contrario, un’azione continua di fine tuning da parte del policy maker, ed è dubbio che la Stability Reserve possa assolvere a tale compito. Essa opera in modo meccanico, accogliendo fino al 24% delle quote non allocate e rilasciandone un certo numero qualora si scendesse al di sotto di un certa soglia. In altri termini, si stabilisce una fascia entro la quale l’offerta delle quote deve permanere: se scende al di sotto, o sale al di sopra di un certa soglia, entra in aziona la Stability Reserve. Dunque, siamo sì di fronte a un’iniezione di flessibilità ma essa è di tipo algoritmico, nulla assicura che stabilizzerà il prezzo in un territorio tale da indurre fuel switch appropriati.
Il funzionamento dei mercati e la formazione dei prezzi sono questioni complesse, se non misteriose, come insegna la recente evoluzione del mercato petrolifero nel quale un surplus di offerta pari appena al 2% ha prodotto un abbassamento del prezzo del barile superiore al 70%, da 110 doll. negli anni 2011-2013 a minimi inferiori a 30 doll ad inizio 2016. Per questo, se si volesse davvero stabilizzare il prezzo con efficacia, occorrerebbe un meccanismo di fine tuning continuo, che però implicherebbe l’allocazione di un potere decisionale a un organismo libero di variare l’offerta di permessi secondo le necessità. E’ innegabile che tale organismo somigli tanto a una sorta di banca centrale che operi con operazioni di mercato aperto - acquisto e vendita di quote - tese a stabilizzare il prezzo. Chiaramente, ipotizzare una soluzione del genere per l’ETS equivaleva non tanto a riformarlo quanto a rifondarlo.
Per concludere: è assai verosimile che in ultimo tutta la questione ETS non sia altro che il riverbero di un vizio di fondo, ovvero della violazione della regola aurea di Jan Tinbergen, che valse all’economista olandese il Premio Nobel nel 1969: il numero degli obiettivi deve essere uguale al numero degli strumenti. Ora, dal 20-20-20 in poi, l’UE ha declinato i propri obiettivi in terne: carbonio, quota di rinnovabili, incremento di efficienza energetica. Il problema emerge dal fatto che gli ultimi due target implicano riduzioni delle emissioni e, dunque, amplificano il primo. Si approda così ad un quadro di policy in cui vi sono tre strumenti diversi per lo stesso obiettivo, e non può che essere così date le leggi della chimica che rendono il carbonio elemento fondante dell’energia. Toccare l’energia significa toccare il carbonio: di qui la violazione della regola di Tinbergen. L’Unione Europea avrebbe dovuto prevederlo già dall’inizio, abbassando i cap dell’ETS. Invece ha ragionato sempre all’interno di un’ottica parziale, ricercando la coerenza tra il target dei settori ETS ed il target di lungo periodo delle emissioni complessive, dimenticando l’impatto di rinnovabili ed efficienza. E’ emersa una situazione di surplus che ha depotenziato uno strumento complesso e sofisticato quale il mercato dei permessi, trasformandolo nel classico cannone che spara a una mosca.
Che fare? Tra la Scilla della stabilità dell’offerta di quote e la Cariddi della sua flessibilità estrema indotta da un organismo tipo banca centrale, la Commissione ha optato per la via centrale della flessibilità parziale e algoritmica. Il tempo dirà se tale via conduce alla meta, oppure se hanno ragione coloro che ipotizzavano un diverso meccanismo, simile allo USRGGI (US Regional Greenhouse Gas Initiative), che legasse l’offerta di quote ad una fascia di prezzo, accrescendola o diminuendola quando il prezzo fosse pari a certe soglie4. Di nuovo saremmo stati di fronte ad una soluzione di tipo algoritmico, in grado di eliminare alla radice le pastoie politiche della flessibilità. D’altra parte, ancorando l’offerta di quote al prezzo si sarebbe avvicinato lo strumento del permesso a quello della tassazione, trasformando la variabile indipendente – l’offerta di quote – in dipendente. Ancora una volta siamo di fronte al dualismo quantità-prezzo: o si controlla l’una o si controlla l’altro. “E’ il mercato, bellezza”, direbbe Humphrey Bogart. E avrebbe ragione, perché la proposta della Commissione è per sua natura imperfetta: le incognite sono due, ma l’equazione è una sola.
* Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non vanno ascritte all’azienda nella quale egli lavora.
Note
1 E’ questo il punto di vista della maggior parte della letteratura. Va comunque segnalato che alcuni studi ritengono che le cause elencate possano spiegare solo in minima parte il basso prezzo, e che la mancanza di credibilità del meccanismo potrebbe essere la causa principale. Si veda Kock et al. 2014: “Causes of the EU ETS price drop: Recession, CDM, renewable policies or a bit of everything?—New evidence”, Energy Policy Volume 73, October 2014, Pages 676–685 (http://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S0301421514003966).
2 W. H. Nordhaus, “Life After Kyoto: Alternative Approaches to Global Warming Policies”, NBER WORKING PAPER SERIES, Working Paper 11889 (http://www.nber.org/papers/w11889).
3 Di nuovo Nordhaus, ibidem: “An analogous situation occurred in the U.S. during the “monetarist” period of 1979-82, when the Federal Reserve targeted quantities (monetary aggregates) rather than prices (interest rates). During that period, interest rates were extremely volatile. In part due to the increased volatility, the Fed changed back to a price-type approach after a short period of experimentation”.
4 Si veda: Knopf et al. (2014), “The European Emissions Trading System (EU ETS): Ex-post analysis, the market stability reserve and options for a comprehensive reform”, Feem, nota di lavoro 79.2014; Burtraw D. 2014, “Fixing Emissions Trading Imbalances with a Price Floor” (http://www.rff.org/blog/2014/fixing-emissions-trading-imbalances-price-floor).