La vittoria di Donald Trump nelle presidenziali americane ha colto impreparata la gran parte degli osservatori, compresi quelli che – per una ragione o per l’altra – l’avrebbero auspicata. Trump ha sconfitto non solo la sua rivale democratica – Hillary Clinton – ma soprattutto le resistenze interne a un partito repubblicano che non lo ha mai veramente amato. Grazie a una campagna combattuta all’insegna del ‘contro tutto e contro tutti’ il tycoon newyorkese è riuscito ad affermarsi in pressoché tutti gli stati chiave, compresi quelli in cui la struttura dell’elettorato e/o l’esperienza delle passate elezioni sembrava favorire il suo avversario. E’ grazie a questi successi che – sebbene Hillary Clinton sia riuscita ad aggiudicarsi la maggioranza del voto popolare –Trump si è imposto con una solida maggioranza (290 contro una soglia di 270) fra i ‘superelettori’; quelli chiamati – in virtù del sistema di voto indiretto previsto dall’ordinamento statunitense – a eleggere concretamente il presidente. Si tratta di un segnale significativo. Come all’epoca della prima presidenza Obama, la voglia di cambiamento dell’elettorato sembra avere aiutato un candidato ‘anomalo’; soprattutto un candidato che dell’opposizione al ‘sistema’ ha fatto la sua – riconoscibile – bandiera.

Come saranno, quindi, gli Stati Uniti di Donald Trump? Occorre premettere che è arduo cercare di interpretare le probabili linee dalla politica trumpiana dalle dichiarazioni che hanno costellato la campagna elettorale. Al di là dell’impronta personale, lo ‘standing’ presidenziale è, in genere, molto diverso da quello di un candidato. Inoltre, il sistema di ‘pesi e contrappesi’ su cui si regge il modello istituzionale statunitense agisce da fattore di limitazione importante per eventuali ‘scatti in avanti’. Sebbene Trump possa contare su un Congresso ancora in mano repubblicana (anche se con un margine minore rispetto a quello uscente e con un Senato potenzialmente in bilico), questo non vuole dire che il legislativo gli sarà necessariamente ‘amico’. Gli scarti fra la piattaforma del presidente eletto e quella tradizionale del ‘Grand Old Party’ sono molti e rilevanti, anche in settori delicati come quelli del commercio, del protezionismo e dei rapporti internazionali. Su altre issues – e, fra questi, le tematiche energetiche – la convergenza appare maggiore, con il presidente e il Congresso entrambi inclini a promuovere un crescente ricorso ai combustibili fossili anche per sostenere il settore estrattivo nazionale. Se e quanto ‘The Donald’ riuscirà a tradurre in fatti concrete le sue promesse elettorali (molte delle quali, peraltro, contraddittorie) è, quindi, oggi, campo aperto alla speculazione; speculazione che non è favorita dalla ridda di voci che si rincorrono intorno alla composizione della squadra di governo.

Ciò che è certo è che – per molte ragioni – gli Stati Uniti di Trump non saranno il paese isolazionista che è stato dipinto in questi mesi. La volontà espressa di rilanciare la spesa militare è in sé indicativa di come il presidente sembri volere consolidare le tradizionali leve di potenza. Altrettanto indicativi appaiono i nomi che, pur nell’incertezza che è già stata notata, sono stati fatti per una serie di posti-chiave dell’amministrazione, in primo luogo per i titolari del Dipartimento di Stato e quello della Difesa. Anche in materia di politica economica il ripiegamento invocato dal candidato Trump appare poco credibile.

Sorvolando sull’ostilità di principio che larghe fette del partito repubblicano nutrono nei riguardi del protezionismo commerciale ‘duro e puro’, la difficoltà di rinegoziare trattati multilaterali come il TPP (Trans-Pacific Partnership) potrebbe rappresentare un ostacolo importante al tentativo di riequilibrare ‘forzosamente’ la bilancia commerciale USA e di migliorare le condizioni di vita dei ‘colletti blu’ che hanno votato per Trump negli Stati della ‘rust belt’ più colpiti dai processi di deindustrializzazione. Più a rischio appare – sul fronte dell’Atlantico – la stipula del Transatlantic Trade and Investment Partnership (TTIP); una perdita, comunque, di minore rilievo, specie se si tiene conto delle difficoltà che le trattative continuano a incontrare dal lato europeo.

Molti dubbi costellano, quindi, l’orizzonte dei mesi a venire. Alcuni si chiariranno nelle prossime settimane, via via che si decideranno i nomi dei membri dell’amministrazione. Tuttavia, il Trump presidente sembra destinato a rimanere ancora per molto tempo una figura difficile da afferrare. Nonostante l’etichetta di ‘leader populista’ che gli è stata da più parti attribuita, il tycoon newyorkese sembra, piuttosto, collocarsi dentro quel filone di presidenti ‘carismatici’ (nel senso weberiano del termine) che – per fermarsi ai tempi recenti – ha compreso, fra le altre, figure come quelle di Franklin D. Roosevelt, Ronald Reagan o (per certi aspetti) Barack Obama. In questo senso (pur con tutte le differenze del caso) Donald Trump sembra rispondere alla stessa domanda di cambiamento che, nel 2008, aveva portato Barack Obama alla Casa Bianca. Il maggiore problema con cui, in questi otto anni, l’amministrazione Obama ha dovuto scontrarsi è stata l’incapacità del presidente a dimostrarsi, nell’azione quotidiana di governo, all’altezza delle (troppe?) attese che aveva saputo sollevare. E’ questo, per vari aspetti, lo stesso problema che si troverà ad affrontare Donald Trump, sul quale peserà, in sovrappiù, l’onere di apparire all’altezza di un ufficio raggiunto seguendo la ‘via facile’ dell’opposizione ‘radicale’ al sistema che ora è chiamato a rappresentare.