La lunga estate del 2023 è stata accompagnata da ondate di calore estremamente intense. Nel mese di luglio, molte città italiane hanno superato i record storici di temperatura: il 18/07 a Roma è stata registrata la temperatura di 42,9°C, mentre il 24 sono stati toccati i 47,8°C a Siracusa e i 46,7°C a Palermo. Il caldo estremo minaccia la salute delle persone, mette in difficoltà le attività produttive, fa schizzare alle stelle i consumi elettrici per alimentare gli impianti di condizionamento sovraccaricando le reti di distribuzione elettrica che, in alcuni casi, cedono lasciando interi quartieri senza energia. Il 20 agosto, sulla vetta della  Marmolada, si sono registrati +13,3°C, superando il record dell’estate 2022, raggiunto il giorno del crollo di una parte del ghiacciaio che ha provocato 11 vittime. Ma è tutta l’Europa a essere stata investita da un’ondata di caldo record: secondo le analisi di Copernicus Climate Service, il periodo giugno-agosto 2023 è stato il più caldo della storia a livello globale. Anche questa stagione autunnale è anomala: settembre  ha fatto registrare una temperatura media di 2,51 gradi superiore alla media del periodo 1991-2020 e l’inizio di ottobre è insolitamente mite con temperature quasi estive in buona parte d’Europa; sempre secondo Copernicus, il 2023 potrebbe essere l’anno più caldo della storia, strappando il primato al 2016.

 Poche settimane prima dell’arrivo di questa estate rovente, nella prima metà di maggio, un ciclone di portata eccezionale ha riversato in poche ore 350 milioni di metri cubi d'acqua sull’Emilia Romagna, mandando oltre 40 comuni sott’acqua e provocando 17 vittime, 20.000 sfollati e danni stimati in 9 miliardi di euro. Il dibattito pubblico, come spesso accade nel nostro paese, si è polarizzato: da un lato, chi vede in questi eventi un segno evidente del disastro climatico, dall’altro, chi minimizza dicendo che in fondo il maltempo c’è sempre stato, così come d’estate ha sempre fatto caldo. Ma allora, come stanno veramente le cose? Sta accadendo qualcosa al clima del nostro pianeta?

 Innanzitutto, facciamo chiarezza su un punto: “meteo” e “clima”, talvolta usati come sinonimi, sono due concetti diversi. Le condizioni atmosferiche del nostro pianeta variano continuamente  sia sul breve termine (giorni o settimane) sia fra un anno e l’altro. Può succedere, ad esempio, che alcuni giorni invernali siano particolarmente caldi, o che una stagione risulti più secca della media, per effetto della naturale variabilità dei fenomeni atmosferici: la meteorologia studia queste fluttuazioni, e cerca di prevederle con modelli matematici. Se, invece, esaminiamo un arco temporale più ampio, dai decenni fino ai secoli, possiamo individuare le condizioni atmosferiche medie di una data località, attorno alle quali il tempo meteorologico oscilla per effetto della variabilità atmosferica. Con il termine “clima”, ci riferiamo alle medie a lungo termine delle condizioni atmosferiche: un clima più caldo significa che le fluttuazioni meteo avvengono rispetto a una temperatura media più alta; questo non significa che, nello stesso periodo, non si possano registrare anche temperature insolitamente rigide, ma si tratterà di eventi molto più rari.

 Per studiare se e come il clima sta cambiando, occorre quindi mettere insieme un’enorme mole di dati meteorologici, in modo da cancellare gli effetti dovuti alla variabilità giornaliera e stagionale ed evidenziare le tendenze globali a lungo termine. Queste analisi sono svolte indipendentemente da diverse agenzie governative ed enti di ricerca come la NASA ed il NOAA  negli Stati Uniti o il MetOffice inglese, e tutte indicano un aumento delle temperature medie globali di +1,1°C rispetto al periodo preindustriale.

 I dati mettono anche in evidenza che alcune zone del pianeta si stanno riscaldando molto più rapidamente della media: nella regione artica, ad esempio, l’aumento delle temperature avviene ad un tasso doppio rispetto alla media globale; ma anche l’Europa continentale e il Mediterraneo si stanno riscaldando più rapidamente del resto del mondo. Le estati torride che abbiamo vissuto negli ultimi anni non sono quindi un capriccio del meteo, ma il risultato dell’aumento delle temperature medie nella regione euro-mediterranea. I modelli climatici indicano, inoltre, che un Mediterraneo più caldo favorisce la formazione di cicloni, rendendo più probabili gli eventi meteo estremi: è vero che le piogge torrenziali ci sono sempre state, ma adesso si manifestano con maggiore frequenza rispetto al passato.

 I meccanismi fisici che regolano la temperatura di un pianeta in risposta all’irraggiamento solare sono ben compresi da più di un secolo, e oggi la comunità scientifica è pressoché unanime nell’attribuire l’aumento delle temperature medie globali alle emissioni di gas serra dovute all’uso dei combustibili fossili, ai processi industriali e all’agricoltura intensiva: rispetto all’era preindustriale, la quantità di anidride carbonica (CO2) nell’atmosfera oggi è di oltre il 50% più elevata, mentre la concentrazione di metano è aumentata del 160%. Un aumento così rapido della concentrazione di gas serra non è mai stato osservato in nessuno dei record geologici che documentano l’evoluzione del clima terrestre nel passato, al punto che l’Intergovernmental Panel for Climate Change (IPCC), nell’ultimo rapporto, ha dichiarato “virtualmente certo” che l’aumento di gas serra dovuto alle attività antropiche sia la causa principale dell'aumento della frequenza dei fenomeni meteo estremi su scala globale.

Temperature medie globali nel mese di agosto riferite alla media del periodo 1991-2020

Fonte: Dati ERA5, Credit: C3S/ECMWF

 Quindi, le ondate di calore e i fenomeni meteo estremi che abbiamo vissuto negli ultimi anni non sono un fatto isolato, ma rappresenteranno la nuova normalità. È fondamentale ora agire su due fronti: da un lato, migliorare la capacità di resilienza delle nostre comunità, mediante politiche di adattamento agli effetti del cambiamento climatico, ad esempio realizzando opere di difesa costiera contro l’innalzamento del livello dei mari, oppure eliminando le “isole di calore” all’interno dei centri urbani; ma al tempo stesso, è indispensabile intervenire con decisione per la riduzione delle emissioni, per contenere l’aumento delle temperature entro livelli che consentano azioni di adattamento. Come ha sintetizzato in modo molto efficace Antonello Pasini, climatologo del CNR, occorre “gestire l’inevitabile ed evitare l’ingestibile”.

 L’IPCC, nel suo ultimo rapporto, indica che senza un cambio di rotta nelle politiche di riduzione delle emissioni, l’obiettivo degli accordi di Parigi, ovvero il contenimento del riscaldamento globale entro +1,5°C al 2100, è completamente fuori portata: le proiezioni climatiche basate sulle politiche attuali indicano per il 2100 un riscaldamento di +3,5°C, con un rischio elevato di attivazione di tipping points come il collasso delle calotte polari o l’arresto delle correnti oceaniche, che avrebbero effetti vasti e irreversibili sul clima terrestre. Ma secondo le analisi dell’IPCC, sono disponibili molteplici opzioni che possono almeno dimezzare le emissioni fossili entro il 2030 in tutti i settori economici e industriali: energia, città e aree urbane, edifici, trasporti, industria, agricoltura. Per contenere il riscaldamento globale occorre aumentare gli investimenti per la decarbonizzazione da tre a sei volte: uno sforzo notevole ma non impossibile; inoltre, le analisi macroeconomiche recenti indicano che i costi economici per l’implementazione delle politiche di riduzione delle emissioni sono inferiori ai costi da sostenere come conseguenza di un’azione ritardata. Agire subito per decarbonizzare il nostro sistema economico e industriale è la grande sfida con cui deve misurarsi la nostra società, ma è una sfida che possiamo e dobbiamo vincere.