Il tema della finanza climatica, così come quello dell’adattamento e del Loss&Damage, è stato al centro dell’agenda della presidenza egiziana della COP27. Questo per due ordini di motivi: da una parte, l’ambizione egiziana a porsi come voce di riferimento per i paesi del Sud globale, in particolare quelli africani, per i quali la finanza è una questione imprescindibile di giustizia climatica; dall’altra, la scarsa volontà da parte del Cairo ad avanzare sull’altro fronte della lotta al cambiamento climatico, quello della mitigazione. La crisi energetica innescata dall’invasione russa dell’Ucraina ha infatti rinvigorito l’ambizione egiziana a ricoprire il ruolo di hub per l’esportazione di gas naturale tra Africa, Medio Oriente, ed Europa: alla luce di ciò è facile comprendere come il tentativo da parte di alcuni paesi (India, UE) di includere il riferimento al “phase-down” dei combustibili fossili nel testo finale sia stato accolto con freddezza da parte della Presidenza.

E tuttavia, trattandosi di una COP “di implementazione”, i progressi raggiunti nel campo della finanza sono prettamente procedurali, fatta eccezione per la storica creazione di un fondo per le perdite e i danni. Ma procediamo con ordine.

Correva l’anno 2009 quando alla COP15 di Copenhagen i paesi del Nord del mondo (UE, UK, Canada, Australia, Nuova Zelanda, Giappone, Svizzera) si impegnarono a mobilitare una somma pari a 100 miliardi di dollari l’anno entro il 2020, e a seguire ogni anno fino al 2025, per sostenere i paesi in via di sviluppo nella loro lotta al cambiamento climatico. Il target, tuttavia, non è mai stato raggiunto: secondo l’OECD, al 2020 la somma mobilitata era pari a 83,3 miliardi di dollari. L’accordo di Parigi del 2015, riconoscendo il target dei 100 miliardi di dollari come al di sotto delle reali necessità, ha stabilito che un nuovo target (il cosiddetto “new collective quantified goal”) debba essere concordato per la fase post 2025. Nel frattempo, le stime del fabbisogno finanziario dei paesi in via di sviluppo si sono collocate nell’ordine dei “trilioni di dollari”, e non più dei miliardi (il target dei 100 miliardi, del resto, era stato stabilito dai paesi avanzati in maniera arbitraria, senza una reale stima dei fabbisogni dei paesi in via di sviluppo e maggiormente vulnerabili). Secondo un rapporto IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change) dello scorso aprile, gli investimenti in ambito climatico nei paesi del Sud del mondo devono aumentare tra le 3 le 8 volte da qui al 2030, al fine di salvaguardare l’obiettivo dell’1,5°C stabilito a Parigi: ciò significa investimenti attorno ai 2-3 trilioni di dollari l’anno. Un nuovo rapporto presentato da Lord Stern alla COP27 stima il fabbisogno totale di investimenti annuali per i paesi emergenti e in via di sviluppo, diversi dalla Cina, in mille miliardi di dollari nel 2025 e in 2 mila e 400 miliardi di dollari entro il 2030. Nel difficile processo di definizione del nuovo obiettivo di finanza climatica, che dovrà concludersi nel 2024 e di cui l’Italia quest’anno è stata co-chair, la COP27 di Sharm el-Sheikh si è conclusa con l’impegno a sviluppare e pubblicare entro marzo 2023 un workplan per il 2023, che prenderà la forma di un dialogo a livello di esperti tecnici che dovrà fornire la base per i lavori della COP28 (sotto la presidenza degli Emirati Arabi Uniti). Insomma, un work in progress.

Altro avanzamento procedurale, che dovrà accompagnare e guidare i lavori della COP28 a guida emiratina, è quello relativo all’articolo 2.1c dell’accordo di Parigi, sull’allineamento dei flussi finanziari alla transizione energetica e allo sviluppo resiliente agli impatti climatici. Questo obiettivo sposta il focus tradizionale della finanza climatica dal “semplice” sostegno finanziario da parte dei paesi sviluppati a favore di quelli in via di sviluppo, all’impegno sistemico da parte di tutti i paesi a ridurre gli investimenti in combustibili fossili a favore degli investimenti in rinnovabili e costruzione di resilienza climatica. La crisi energetica attuale, che ha dato il via a una corsa frenetica a nuovi contratti Oil&Gas per sostituire il gas russo, ha però messo in pericolo tale obiettivo. La COP27 si è conclusa con il lancio del Dialogo di Sharm el-Sheikh per scambiare punti di vista e chiarire l’ambito di applicazione dell’art.2.1c: anche in questo caso, l’impegno è a organizzare due workshop a livello di esperti tecnici, i cui risultati dovranno essere trasmessi alla presidenza emiratina della COP28.

Molto importanti a livello politico, invece, i progressi compiuti sul fronte della riforma delle istituzioni e degli strumenti finanziari internazionali, e sulla creazione di un fondo per le perdite e i danni.

Per quanto riguarda il primo punto, l’appello alla riforma del sistema di Bretton Woods lanciato dalla Prima Ministra delle Barbados Mia Mottley (“Bridgetown Initiative”), oltre ad aver ricevuto l’importante endorsement della Francia di Emmanuel Macron, ha trovato spazio nella cover text finale. La COP27 è dunque terminata con l’appello alle banche multilaterali di sviluppo (MDBs) e alle istituzioni finanziarie internazionali a riformare le proprie pratiche e a ridefinire le proprie priorità, in linea con l’obiettivo dell’1,5°C. Si incoraggiano dunque gli organismi finanziari a sviluppare nuovi strumenti e modelli operativi che permettano in particolar modo ai paesi in via di sviluppo di avere accesso alle risorse finanziarie necessarie alla gestione dell’emergenza climatica e alla costruzione di economie veramente a prova di futuro, senza contribuire alla creazione di nuovo debito. L’appello dovrà ora essere raccolto dalle istituzioni finanziarie stesse, durante gli incontri di primavera e autunno del 2023, e dalle prossime Presidenze del G20 di India e Brasile.

Per quanto riguarda invece la creazione del fondo per le perdite e i danni, anche in questo caso il risultato può essere definito procedurale (con l’accordo sulla creazione di un fondo da destinare a questo scopo, mentre rimangono da definire tutti i dettagli), ma non per questo meno storico. Anche grazie alla leadership del team negoziale UE, che per primo ha aperto all’istituzione di questo fondo superando la propria iniziale posizione di ostilità, la richiesta che i paesi in via di sviluppo portano avanti da più di vent’anni è finalmente divenuta realtà. Ora si apre però la parte difficile: altri due workshop da tenersi nel 2023 dovranno informare i lavori di un comitato di transizione, incaricato di formulare raccomandazioni su tutte le questioni rimaste aperte. Due, in particolare, quelle dirimenti: quali paesi sono atti a ricevere fondi (se solamente quelli “più vulnerabili” o l’intera gamma dei paesi in via di sviluppo) e, soprattutto, quali paesi devono alimentare finanziariamente il fondo. La discussione sull’ampliamento dei donor – con l’UE che vorrebbe includere tra questi la Cina – si preannuncia difficile, soprattutto nell’attuale contesto geopolitico, marcato da tensioni crescenti tra grandi – e medie – potenze. Questa discussione, che segnerà tutte le discussioni sulla finanza globale da qui in avanti, sarà presumibilmente quella a carattere più geopolitico, in quanto mira a ridefinire lo status globale della Cina.

In conclusione, la COP27 si è chiusa con un risultato storico – l’accordo sulla creazione di un fondo per le perdite e i danni – e con diversi impegni settoriali per far avanzare il processo di trasferimento di flussi finanziari dai paesi del Nord ai paesi del Sud del mondo. Un risultato tutt’altro che scontato, considerando la difficoltà dell’attuale fase geopolitica, Guardando però all’entità dei fabbisogni e all’urgenza delle sfide che abbiamo davanti, è difficile non riscontrare un certo ritardo rispetto alle necessità del momento, in particolare quella di accelerare l’uscita – anche finanziaria – dai combustibili fossili in modo giusto e ordinato.