Il Green Deal europeo, presentato l’11 Dicembre 2019 dalla nuova Commissione Europea presieduta da Ursula von der Leyden, è la nuova strategia di crescita pulita e inclusiva dell’UE, con l’ambizione di rendere l’Unione la prima area completamente decarbonizzata del pianeta entro il 2050. Il percorso di approvazione del Green Deal ha tuttavia evidenziato significative divergenze di visione, radicate nel carattere variegato del sistema elettrico europeo e nell’incertezza sui meccanismi di condivisione dei costi sociali che deriveranno inevitabilmente dalla transizione. Realizzare il 100% di rinnovabili è una sfida altamente ambiziosa in un’area che vede il principale esportatore di energia elettrica (la Francia) affidarsi al nucleare per i tre quarti della sua capacità di generazione. La specificità delle risorse energetiche nazionali ha frenato l’adesione della Polonia, timorosa per la rapidità del processo di transizione che investirebbe la sua produzione di carbone.
Per la prima volta, sembra che il futuro di un sistema elettrico alimentato al 100% dalle fonti rinnovabili possa concretizzarsi, con il conforto di progressi nelle tecnologie di generazione e di immagazzinamento dell’energia, confermati dalle più recenti analisi accademiche. Al contrario, mentre l’incertezza tecnologica studiata dallo storico dell'innovazione Nathan Rosenberg si dirada, si infittisce la nebbia dell’incertezza politica. Siamo di fronte a quella che potremmo definire una “inversione delle fonti d’incertezza”: non è più la tecnologia ad ostacolare la transizione, ma l’incertezza politica.
Anche volendo trascurare i colpi che l’emergenza da coronavirus ha inferto all’edificio politico europeo, ci si può chiedere se la Polonia sarà disponibile a riconsiderare la propria adesione al Green Deal, di qui a giugno, di fronte ad uno scenario macroeconomico profondamente recessivo. Ci si interroga sull’adeguatezza dei programmi di “re-training” delle forze lavoro espulse dal settore del carbone, se mancano adeguate protezioni sociali. La dimensione globale dell’esternalità da emissioni climalteranti richiede un sistema di incentivazione che coinvolga la comunità sovranazionale oltre i confini dell’Unione, perché dallo sforzo individuale di un Paese (sia esso la Francia o la Polonia) derivano benefici globali che le politiche europee non sono in grado di internalizzare a sufficienza. Basteranno le risorse europee allocate?
Dobbiamo sperare che lo shock sanitario convinca la Commissione Europea ad abbandonare in maniera permanente la logica di austerity, pena un significativo rallentamento della transizione sia per carenza di investimenti che per la riluttanza dei Paesi più lontani dall’obiettivo del 100% verde.
Queste considerazioni necessariamente investono la tenuta del sistema elettrico, che in tempi di crisi vanno analizzati con una lente macroeconomica, andando al di là degli aspetti puramente tecnici e microeconomici. Nel lungo termine, raggiunto il 100% di rinnovabili, possiamo aspettarci un significativo abbassamento dei prezzi dell’energia elettrica, ma non durante la transizione, indipendentemente dalla strategia adottata. Il potere d’acquisto dei consumatori ne trarrà beneficio, ma la strada è piena di ostacoli.
Decarbonizzare l’industria elettrica europea senza elettrificare implica che il prezzo medio all’ingrosso si riduce al calare della quota di elettricità prodotta da impianti a carbone. Questo effetto è rafforzato dalla riduzione di domanda da parte dei lavoratori espulsi dal settore carbonifero. Al contrario, elettrificare renderebbe la transizione più costosa in termini di prezzi dell’energia elettrica, a causa di una maggior domanda per il settore elettrico, solo in parte compensata dalla graduale transizione verso le fonti a costo marginale nullo (rinnovabili), oltre che dalla riduzione di domanda da parte dei lavoratori nel settore del carbone. Le evidenze accademiche, peraltro, sempre più suggeriscono che durante la lunga transizione che abbiamo davanti, ottimizzare l’impiego delle fonti non rinnovabili come il carbone richiederà l’implementazione di soluzioni che richiedono un impegno congiunto di investimento, per esempio il miglioramento e rafforzamento dei sistemi di dispacciamento più economico rispetto a programmi di retro-fitting degli impianti a carbone. Si spera che l’emergenza non crei una disgregazione tale da impedire soluzioni condivise.
Restano quesiti di ordine più ampio sulla filosofia sottostante il Green Deal. Sarà concesso alla Polonia di specializzare la produzione di carbone per le esportazioni, vale a dire, di esportare CO2 fuori dall’Unione? Se è vero che siamo in cerca di una transizione giusta, che peso avranno le conseguenze negative per il benessere di Paesi in via di sviluppo da cui attualmente importiamo risorse (per es. uranio)? Quanto iniqua e contraria al principio della concorrenza è una politica che colpisce Paesi in funzione della loro dotazione di risorse naturali? O dobbiamo riconoscere che la logica della concorrenza è deleteria di fronte alle emergenze (immediate e striscianti) che affrontiamo in quest’epoca?