Il premio Nobel dell’economia Robert Solow nel commentare il termine sostenibilità ebbe ironicamente a scrivere: “the less you know about it, the better it sounds”, meno ne sai più suona bene, tanto era vago il significato che poteva trarsi dalle sue mille definizioni. Temo che lo stesso possa dirsi di un altro concetto entrato a pieno titolo nel vocabolario energetico-ambientale: quello dell’economia circolare. Un modello di sviluppo, si sostiene, alternativo a quello dell’economia lineare (dall’estrazione di materie prime allo smaltimento dei rifiuti) in grado di riutilizzare le risorse impiegate sino a rigenerarsi da solo così che, all’estremo, non sarà più necessaria alcuna attività estrattiva né si produrranno più rifiuti.

Un contesto – si legge in una Comunicazione del 2015 della Commissione europea dall’emblematico titolo: “L'anello mancante - Piano d'azione dell'Unione europea per l'economia circolare” – «in cui il valore dei prodotti, dei materiali e delle risorse è mantenuto quanto più a lungo possibile e la produzione di rifiuti è ridotta al minimo» e che «farà risparmiare energia e contribuirà a evitare danni irreversibili in termini di clima, biodiversità e inquinamento di aria, suolo e acqua, causati dal consumo delle risorse». Un obiettivo ambizioso che si potrà raggiungere se l’intera supply chain dei processi produttivi e dei prodotti sarà ridisegnata per ottimizzare il reimpiego dei materiali utilizzati.

Ne beneficerà il clima, abbattendo le emissioni, e ne beneficerà la crescita economica aumentando la produttività delle risorse impegnate. Di più con meno. La fondazione Ellen Macarthur, istituita da grandi partner internazionali tra cui Google, Renault, Banca Intesa, e massimamente impegnata in materia, ha stimato che l’economia circolare potrebbe generare a livello mondiale un beneficio economico di 1.800 miliardi di euro entro il 2030 con un prodotto interno lordo maggiore di 7 punti percentuali. Dal canto suo, la Commissione europea ha stimato in uno studio del 2013 che se l’Unione l’adottasse pienamente la sua ricchezza potrebbe aumentare grosso modo di un terzo da qui al 2050.

Una maggior crescita economica genererebbe però – ed è qui il punto ineludibile – un aumento del consumo di energia, inferiore per intensità ai valori precedenti ma nondimeno positivo. Un effetto di ritorno (rebound effect) simile a quello sperimentato per gli interventi di risparmio energetico la cui efficacia dipende anche dalla dimensione di questo effetto. Se relativamente contenuto, diciamo del 10%, essi sono opportuni perché favoriscono un calo dei consumi, ma se percentualmente molto elevato, sino a oltre il 100% (back-fire effect) la loro efficacia è molto opinabile. Quantificarlo è molto complesso ma varie verifiche empiriche lo stimano in un ordine di grandezza del 25%, per i soli effetti diretti. Tornando alla stima della Commissione sull’impatto dell’economia circolare se moltiplichiamo il maggior reddito che potrebbe indurre in Europa al 2050 per la pur minor intensità energetica (energia/output) il consumo di energia europeo aumenterebbe sino a 2,0 miliardi tonnellate equivalente petrolio rispetto a quanto altrimenti osservato.

La complessità dei prodotti d’oggi, specie quelli elettronici; la loro più elevata intensità e diversità di materiali (circuiti integrati, schede stampate); la loro spesso ridotta scomponibilità, fa sì che solo una bassa percentuale del prodotto finale possa essere recuperata. Uno studio sullo smartphone Fairphone 2 – disegnato per durare più a lungo e favorirne il riciclaggio – ha dimostrato che nemmeno un terzo dei materiali impiegati poteva essere riutilizzato. L’uso di computer, tablet, smartphone consente di leggere libri o quotidiani, ascoltare musica, guardare film senza acquistarli fisicamente così risparmiando plastica, carta, pellicole, etc. Ma per produrli – in un numero previsto a fine decennio in venti miliardi di unità – dovranno impiegarsi più metalli, plastiche, batterie, schermi di vetro etc. e quindi più energia con un saldo netto energetico/carbonico non facile a calcolarsi. Un articolo in uscita sulla rivista Energia dei professori Zotti e Gregori dell’Università di Trieste analizza il concetto di economia circolare riferita all’energia e alla materia, mostrando che l’energia ricavata tramite circolarità resta una frazione molto limitata dell’intero fabbisogno.

Sia i processi di produzione circolare che quelli tradizionali (non circolari) richiedono, infatti, energia per il proprio funzionamento. L’impatto complessivo sul fabbisogno non è prevedibile a priori dipendendo dalla specifica strategia di circolarità, dall’intensità energetica dell’output circolare e del corrispondente non circolare, dal loro rapporto di sostituibilità. L’economia circolare, concludendo, è un’opzione strategica che va certamente perseguita perché in grado di attenuare le emissioni climalteranti e perché costituisce un’opportunità di business per le imprese che vi si impegnano con investimenti, intelligenza, imprenditorialità. Depuriamola, tuttavia, della retorica che spesso l’ammanta, sapendo che potrà sortire gli effetti auspicati solo con una profonda revisione dei processi produttivi e non semplicemente aumentando il tasso di recupero e riciclaggio dei rifiuti. Una maggior crescita, sembra banale dirlo, richiederà comunque più energia. Di più con più.