Fino agli inizi del XIX secolo l’umanità non aveva vissuto quasi alcuno sviluppo economico, al punto che i tassi di povertà dei Paesi più ricchi non superavano quelli dei Paesi più poveri di oggi. Negli Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia, dal 40 al 50% circa della popolazione viveva in una condizione simile a quella che troviamo attualmente nelle aree più povere dell’Africa sub-sahariana, e il 10-20% della popolazione poteva essere fatta rientrare tra gli indigenti.

Le cose cambiarono con l’affermarsi della rivoluzione industriale, che poi portò ad un’apertura alla sperimentazione e all’applicazione tecnologica delle nuove scoperte scientifiche, nuovi metodi di produzione e una crescita senza precedenti del reddito pro-capite che permisero a molti di uscire dalle condizioni di miseria in cui erano vissuti fino ad allora.

Un processo che ha naturalmente avuto un notevole impatto sull’ambiente, cosa di cui per lungo tempo non ci si è preoccupati perché sino a quando “la vita era brutta, violenta e breve, non c’erano né la volontà né la capacità di affrontare questi problemi in modo efficace” (Johan Norberg, 2016).

Una più diffusa coscienza ambientale, se così la si vuole definire, è infatti una conquista relativamente recente e deriva da un mutato atteggiamento delle persone verso questi problemi, reso possibile da un aumento della ricchezza, da una migliore qualità della vita che ha modificato le preferenze e dal progresso tecnologico che ha offerto nuovi modi di produrre e consumare.

Tecnologia e benessere non sono dunque un ostacolo alla sostenibilità ambientale, caso mai sono una precondizione. Come ha affermato il primo Rapporto sull’Indice di sostenibilità ambientale (IPE) sviluppato da Yale e Columbia University, la ricchezza emerge come la principale determinante delle prestazioni ambientali, perché i più gravi problemi ambientali che possiamo riscontrare nella realtà attuale non hanno origine da tecnologia e benessere, ma dalla loro mancanza. Insomma, più un Paese è ricco e più si impegna per rendere l’ambiente più pulito e sicuro per l’uomo.

Non è un caso che l’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile adottata nel 2015 dalle Nazioni Unite (SDG), tra i suoi obiettivi mette ai primi posti la lotta alla povertà e alla fame, il diritto al benessere e alla salute e anche l’accesso a energia pulita, sicura e abbordabile.

Resta tuttavia il fatto che, nonostante i progressi fatti, ancora oggi circa 900 milioni di persone non hanno alcun accesso all’energia elettrica, mentre altri 3 miliardi, cioè il 40% della popolazione mondiale, usa carbone, legna e altre biomasse per cucinare, riscaldarsi e illuminare l’interno delle case. Come si legge in un recente rapporto dell’Onu, oltre la metà dei 6-7 milioni di morti premature che ogni anno si registrano a livello mondiale per la qualità dell’aria sono dovute proprio all’uso di queste fonti di energia: in pratica, stando a questi numeri, l’aria insalubre dentro casa fa una vittima ogni 10 secondi.

Ma queste sono le tipiche minacce ambientali che nei Paesi più sviluppati e industrializzati sono state affrontate e risolte e oggi la vera sfida è che ciò avvenga anche negli altri Paesi attraverso un miglioramento delle condizioni di vita e benessere.

Morti ogni 100.000 persone nel 2016 a causa dell’inquinamento dell’aria da PM2,5; dati standardizzati per età

Fonte: GEO6 (2019)

Ciò vale anche per l’altra grade sfida e cioè quella dei cambiamenti climatici che passa per il contenimento delle emissioni di CO2 che sono un fenomeno globale.

Sotto questo punto di vista, ancora più rilevanti sono i fattori demografici ed economici, perché sono quelli che indirizzano l’evoluzione della domanda di energia e la possibilità di soddisfarla con fonti in grado di combattere le tante disparità evidenziate coerentemente con gli obiettivi ambientali.

Stando ai dati del World Energy Outlook dell’AIE, nel 2040 la popolazione mondiale dovrebbe superare i 9 miliardi rispetto agli attuali 7,5 miliardi e parallelamente il tasso di urbanizzazione dovrebbe salire dal 55 al 64%, con circa 1,7 miliardi di persone che andranno a vivere in città e centri urbani. Oltre il 70% di questa moltitudine sarà concentrato nella regione Asia-Pacifico - con l’India che, con oltre 1,6 miliardi di abitanti, cioè più di quanti ce ne saranno in Europa e Nord America messe assieme, sorpasserà la Cina - e in Africa, dove la popolazione dovrebbe raddoppiare passando da 1,2 a 2,1 miliardi.

Uno sviluppo demografico di questo tipo, sempre secondo le stime dell’Aie, porterà con sé un aumento della domanda primaria di energia di circa il 30% (dai circa 14 miliardi di Tep attuali ai quasi 18 miliardi del 2040) e anche in questo caso il grosso dell’incremento si avrà nella regione Asia-Pacifico, in Africa e in Medio Oriente che insieme ne assorbiranno il 60%.

Come cambia la domanda di energia nelle varie aree del mondo (2017-2040)

Fonte: Elaborazione UP su dati AIE, WEO 2018

A non cambiare poi così tanto sarà la composizione della domanda per fonti, rimasta sostanzialmente inalterata negli ultimi 20 anni, largamente basata sulle fonti fossili (carbone, petrolio, gas) che oggi coprono circa l’81%. Una quota che nel 2030 dovrebbe scendere intorno al 77% e nel 2040 al 75%, con il petrolio che sarà ancora la prima fonte – impiegato principalmente nel settore dei trasporti e nella petrolchimica - seguito dal gas e dal carbone.

Composizione della domanda per fonti (peso%)

Fonte: Elaborazione UP su dati AIE, WEO 2018 (New Policies Scenario)

Analogamente alla domanda, anche il totale delle emissioni di CO2 è stimato in crescita (dai 32,5 miliardi di tonnellate attuali ai 35-36 miliardi tra il 2030 e il 2040), ma con una diversa ripartizione regionale rispetto ad oggi. In particolare, cresceranno in quei Paesi dove sono attesi gli incrementi demografici ed economici maggiori, come ad esempio l’India che vedrà raddoppiare il proprio peso sul totale, mentre scenderanno, sebbene di poco, quelle della Cina dove a quella data il 43% della domanda di energia dovrebbe essere ancora coperta dal carbone rispetto al 63% attuale (il 53% rispetto al 79% se ci si riferisce alla sola domanda di energia elettrica). L’Europa, dal canto suo, scenderà intorno al 7-8% (oggi pesa per l’11-12%).

Ripartizione emissioni CO2 per area geografica nel 2040

Fonte: Elaborazioni UP su dati AIE, WEO 2018 (New Policies Scenario)

Tutto ciò evidenzia come, nonostante il percorso intrapreso da alcuni Paesi, in particolare dall’Europa, unica regione che nel 2018 ha fatto registrare una diminuzione delle emissioni di gas serra (-1,3%) a fronte di un modesto incremento della domanda primaria di energia (+0,2%) e di un incremento medio a livello mondiale rispettivamente dell’1,7% e del 2,3%, gli scenari emissivi di medio-lungo termine presentino un gap rispetto agli obiettivi ambientali previsti nei prossimi due decenni.

La soluzione però non è quella di tornare indietro nel tempo, ma far sì che, come sostiene Johan Norberg, “le nostre politiche climatiche non limitino la nostra capacità di creare più ricchezza e migliori tecnologie per dare più opportunità ai poveri del mondo (...) Porre troppi vincoli e costi sulla popolazione mondiale potrebbe rendere la vita più difficile ai poveri di oggi per ridurre i rischi dei ricchi di domani”.