Dopo alcuni anni di battaglie fratricide, le aziende che producono biodiesel in Italia, convinte che un’unica associazione sia più forte, hanno deciso di superare le divisioni interne e di riunirsi nuovamente in Assitol, l’Associazione Italiana dell’Industria Olearia, che in Confindustria rappresenta e tutela le aziende che lavorano oli e grassi ad uso alimentare, mangimistico, tecnico ed energetico.

Quali sono le materie prime vegetali utilizzate per la produzione di biodiesel in Italia? Il mercato degli oli vegetali internazionale è un mercato trasparente?

In Italia, l’industria del biodiesel impiega per la produzione oli da semi e frutti oleosi (soprattutto soia e girasole), grassi animali, oli esausti, nonché sottoprodotti e residui della filiera agroalimentare. La nostra filiera di produzione si è concentrata - da decenni - soprattutto sui biocarburanti di prima generazione. Siamo pionieri in questo, perché l’Italia è partita prima ancora dei cugini francesi e della Germania. Negli ultimi cinque anni, però, abbiamo sviluppato molto la produzione di biodiesel da sottoprodotti e residui della filiera agroalimentare, in particolare da grassi animali e da oli esausti che, non essendo destinati all’alimentazione e in virtù del loro risparmio di emissioni, beneficiano di un doppio conteggio (ovvero si considera un contenuto energetico doppio sia ai fini del calcolo dell’obiettivo stabilito dalla Direttiva per il settore Trasporti sia ai fini degli obblighi di immissione in consumo per i fornitori di benzina e gasolio).

Oltre ad assorbire la produzione nazionale dei materiali citati, a causa del nostro storico deficit di materie prime, energetiche e agricole, dipendiamo dall’importazione dall’UE e dall’estero.

A differenza dei produttori di carburanti fossili, tutti gli operatori della filiera sono certificati ai sensi della normativa europea e italiana sulla sostenibilità e per la trasparenza, necessaria quando si parla di incentivi. Tutte le materie prime utilizzate in Italia sono tracciate, in particolare le operazioni sugli oli vegetali puri vengono inserite nel registro online del SIAN (www.sian.it).

Quello dei biocarburanti è senz’altro un mercato complesso. A creare distorsioni di mercato, sono le diverse regolamentazioni tra paesi UE e extra-UE. Anche l’incertezza normativa, per esempio sui sistemi incentivanti, ha influenzato molto lo sviluppo del settore in Italia.

Quanto vale in Italia la filiera produttiva italiana di materie prime biologiche destinate al settore dei biocarburanti? Quali sono le opportunità di crescita futura?

Attualmente, il settore vale 2 miliardi di euro, per una capacità produttiva di 1.600.000 tonnellate, e occupa quasi 2.000 addetti. Le potenzialità del settore sono a tutt’oggi molto interessanti, nonostante le numerose criticità che, negli ultimi anni, hanno accompagnato lo sviluppo industriale.

L’evoluzione tecnologica è basilare per il nostro settore, il suo sviluppo dipende innanzitutto da questo. Lo sfruttamento con nuovi metodi delle materie prime, ad esempio l’olio dalle alghe, rappresentano il futuro, all’insegna dell’energia sostenibile e del risparmio di anidride carbonica. Si tratta di un percorso ancora in fase di studio e in via di costruzione, ma nel quale le aziende stanno investendo. Per questo contiamo di trovare sostegno nel programma Industria 4.0 (piano messo a punto dal Ministero per lo sviluppo economico che prevede forme di sostegno finanziario e fiscale alle imprese che innoveranno i processi produttivi).

È giusto parlare di conflitto tra biocarburanti e agricoltura? Che effetti avrà sui produttori il passaggio ai cosiddetti biocarburanti advanced previsto dalla normativa europea? L’industria è pronta?

Ci siamo posti per primi la domanda se esista o meno un conflitto tra biocarburanti e agricoltura e, per il settore della produzione di biodiesel, possiamo affermare con certezza che non vi è conflitto, semmai vi è collaborazione.

Provo a spiegarmi meglio. In un paese come l’Italia dove l’olio per il consumatore è soprattutto d’oliva, la produzione agricola di semi oleosi trova un extra reddito legato alla possibilità di vendere l’olio da semi ad uso energetico. Questo reddito supplementare ha spinto molti agricoltori, nazionali ed europei, ad investire su tali produzioni contribuendo ad aumentare anche la produzione di farine proteiche – di cui siamo storicamente deficitari - destinate alla filiera zootecnica per gli allevamenti da cui produciamo le nostre DOP/IGP famose in tutto il mondo. La filiera zootecnica ha beneficiato anche della destinazione energetica dei sottoprodotti di origine animale ottenendo un forte risparmio nei costi di raccolta e trattamento sanitario di tali materie.

Passare agli avanzati dimenticandosi o, peggio ancora, condannando i biocarburanti di prima generazione danneggerà l’agricoltura, in particolare le nostre produzioni di eccellenza, e spingerà l’Italia e l’UE a dipendere ancor di più dalle importazioni di proteine da paesi extra-UE (USA, Brasile, Argentina).

Per gli avanzati parliamo senza dubbio di opportunità, anche se la strada per sfruttare appieno le possibilità del mercato non è certamente facile da percorrere e la tecnologia ancora prematura a livello industriale.

La Direttiva ILUC ha introdotto, a livello europeo, il concetto di biocarburante avanzato. E’ bene ricordare che l’Italia è stata un precursore dei meccanismi di incentivazione, avendo già introdotto obiettivi precisi sulla messa in consumo di biocarburanti avanzati con il Decreto 10 ottobre 2014 del Ministero dello Sviluppo Economico. Al tempo stesso, le nostre aziende hanno investito sull’ampliamento delle capacità di produzione e sui biocarburanti di prima generazione, derivati da semi e frutti oleosi, per rispondere alla crescente domanda legata all’obiettivo europeo di miscelazione del 10% di biocarburanti nei carburanti entro il 2020.

Ecco perché auspichiamo una concreta attuazione della Direttiva che garantisca sistemi di premialità, come il double counting o sistemi ispirati ad altre esperienze europee e finalizzati alla tutela degli investimenti industriali realizzati fino ad oggi.

Tra le criticità segnaliamo che, non essendoci oggi un limite al doppio conteggio, le aziende petrolifere sono portate ad acquistare solo prodotti derivanti da oli di frittura usati o da grassi animali di categoria 1 e 2 (sottoprodotti di origine animale, non destinati al consumo umano, utilizzati a norma di legge solo come combustibile, e recuperati dalle aziende che si occupano di "rendering" per scopi energetici), tutte materie che implicano una lavorazione dagli alti costi.

Inoltre il biocarburante avanzato di fatto renderebbe meno vantaggioso il ricorso agli oli vegetali per usi tecnici, colpendo il settore agricolo che ha trovato in questo filone un’attività redditizia.

È un dato di fatto che sarà difficile raggiungere gli ambiziosi obiettivi previsti dall’Unione Europea per il 2020 e per il post-2020 puntando esclusivamente sui biocarburanti avanzati.

In ambito europeo vi state battendo contro il concetto di “segregazione fisica” introdotto dalla normativa in tutte le fasi della filiera di produzione dei biocarburanti. Di che cosa si tratta?

Diciamo innanzitutto che la normativa europea, per promuovere l’utilizzo di materie prime rinnovabili senza paralizzare la normale operatività delle aziende, prevede un sistema di bilancio di massa per il quale in un periodo di tre mesi partite di prodotto entrano ed escono dall’azienda senza segregazione fisica. La natura tecnica di alcuni materiali (oli e grassi animali e vegetali) rende indispensabile la miscelazione di tali prodotti per evitare che solidifichino.

Inoltre l’industria olearia ha una vocazione agroalimentare, dato che produce oli destinati all’alimentazione, umana o animale, e in alcuni casi destinati ad uso tecnico/energetico. Solo nel momento in cui viene acquistato per l’utilizzo energetico l’olio, passando in un deposito fiscale, diventa un prodotto energetico.

La segregazione fisica è la rigida separazione delle materie prime utilizzate per produrre biocarburanti da qualsiasi altra sostanza in tutti i passaggi della filiera di produzione che, nel caso dei biocarburanti da oli, comprende la produzione agricola del seme oleoso, la triturazione dello stesso, l’estrazione dell’olio e le successive fasi di produzione dei biocarburanti. Non condividiamo l’idea di introdurre la segregazione fisica che, prima del deposito fiscale, non è ipotizzabile per una filiera come quella dei bioliquidi e biocarburanti. Un divieto assoluto potrebbe portare alla paralisi dell’attività produttiva in Italia, a beneficio esclusivo degli operatori stranieri, perché introduce il divieto di miscelazione, la segregazione fisica appunto, in tutte le fasi della filiera di produzione dei biocarburanti, tranne che nella fase finale per ovvie ragioni tecniche.

Al fine di mitigare l’effetto di tale previsione ingiustamente oppressiva per tutte le aziende operanti nella filiera a monte della produzione dei biocarburanti e per permettere alle aziende di continuare ad operare serenamente sul mercato, abbiamo proposto di specificare che il divieto di miscelazione si applichi nel momento in cui le materie prime transitano presso un deposito fiscale, passaggio necessario per ogni prodotto energetico.

In Italia c’è tanta disinformazione sull’argomento oli vegetali e biofuel, quali sono i miti da sfatare? Qual è la vostra posizione sull’olio di palma?

Il primo mito riguarda l’abbandono della vocazione alimentare della nostra agricoltura a favore dell’energia. Siamo stati tra i primi in Europa a puntare sul principio del “food first”. Secondo rilevazioni della Commissione Europea, l’introduzione dei biocarburanti ha favorito la creazione di 220.000 posti di lavoro, soprattutto nelle zone rurali. Per gli agricoltori, ciò ha rappresentato un reddito aggiuntivo, ma non alternativo a quello di tipo alimentare. In tale ottica, lo sviluppo del biodiesel ha anche contribuito a combattere il fenomeno dell’abbandono delle aree coltivate.

I biocarburanti convenzionali, che sono di diretta derivazione agricola, rappresentano un modo nuovo per sostenere l’agricoltore. A nostro avviso, sarebbe bene raggiungere l’obiettivo di un impiego pari ad almeno il 15% del totale di biocarburanti, sviluppando gli avanzati ma mantenendo al tempo stesso l’attuale livello di miscelazione per quelli di prima generazione, in modo da realizzare il target del 27% di rinnovabili entro il 2030.

Sull’olio di palma, siamo da sempre a favore di un approccio sostenibile, non soltanto dal punto di vista ambientale, ma soprattutto razionale. Le nostre aziende, attraverso la partecipazione al RSPO (Roundtable on Sustainable Palm Oil), hanno puntato da tempo sulle produzioni sostenibili e sui controlli severi sulla filiera. Sarebbe ingiusto bandire questo olio vegetale, oltre che del tutto inutile dal punto di vista della sostenibilità.

Dal punto di vista dei costi, a vostro parere è efficiente decarbonizzare i trasporti attraverso i biofuel che comunque ad oggi sono un onere per i petrolieri?

I vantaggi dei biocarburanti di prima generazione sono dimostrati dalle cifre. Basti pensare che la prima generazione di biocarburanti, estratti da semi oleosi, ha già portato un calo delle emissioni nocive nel trasporto su strada pari al 35%. Entro quest’anno, la riduzione di queste stesse emissioni, grazie alle agroenergie, arriverà al 50%.

Inoltre, ridurre l’impiego della miscelazione con carburante da fonti rinnovabili, di fatto, spingerebbe verso il consumo di energia fossile. Un salto all’indietro, verrebbe da dire. L’ambizioso obiettivo di abbassare del 40% le emissioni di anidride carbonica entro il 2030 diventerebbe ancora più difficile da agguantare.

Al contrario, bisognerebbe portare la miscelazione obbligatoria al 15% per le aziende petrolifere e imporre alle aziende di biocarburanti di miscelare le materie prime con una percentuale crescente di biocarburanti avanzati: questo riequilibrerebbe il mercato e creerebbe vantaggi per tutti.