La ricerca scientifica sul clima fatica a trovare spazio sui media destinati al grande pubblico. In questo quadro, quale è stato il ruolo svolto dall’IPCC?

Sappiamo che i media faticano a dare spazio al tema dei cambiamenti climatici, che deve necessariamente fare i conti con la concorrenza di notizie ritenute più attraenti e sensazionali, in grado di suscitare maggior interesse dei lettori e degli utenti. Si rischia quindi di parlare di clima in poche occasioni, spesso collegate ad eventi contingenti: nel caso di eventi climatici estremi da una parte e di grandi eventi internazionali sul tema dall’altro.

Ma condividere con regolarità ciò che emerge dalla ricerca scientifica sui cambiamenti climatici con il grande pubblico è fondamentale, e la ragione la vediamo proprio in questi giorni. È solo grazie alla costante divulgazione fatta con impegno da parte di chi studia il tema da una parte, e dei media che sono stati in grado di coglierne la rilevanza dall’altro, che le reazioni del mondo alla decisione di Trump di avviare le procedure per ritirare gli Stati Uniti dall’Accordo di Parigi sono state così chiare e univoche.

Quanto sta accadendo a seguito della dichiarazione del Presidente degli Stati Uniti è l’effetto di anni di divulgazione attiva su più fronti a livello internazionale e mirata alla costruzione di una consapevolezza diffusa sul tema dei cambiamenti climatici: leader politici - locali e internazionali, imprese e società civile hanno ribadito all’unisono la direzione che il mondo intende mantenere. Il futuro è low carbon, e non è più sufficiente il cambio di rotta di un leader politico, per quanto influente, a dissuadere il resto del mondo dal fatto che sia non solo necessario, ma anche conveniente, agire per il clima.

L’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change) ha avuto un ruolo fondamentale in questo e nella definizione dell’opinione pubblica più cosciente sul tema. Nei suoi cinque Rapporti di Valutazione, pubblicati a partire dal 1990 a intervalli di 5-7 anni (il prossimo è atteso nel 2022), ha realizzato valutazioni periodiche delle pubblicazioni scientifiche sociali ed economiche sui cambiamenti climatici più aggiornate a livello globale, con un grande sforzo di divulgazione diretto soprattutto al mondo della politica, perché tali conoscenze portino all’applicazione di azioni coerenti.

Ciononostante, c’è ancora molto da fare e in fretta, perché gli spazi destinati al tema sui media sono ben lontani dall’essere proporzionati alla sua urgenza.

La COP 21 di Parigi sembra aver segnato un punto di svolta nelle politiche ambientali. Cos’è cambiato rispetto al passato?

L’Accordo di Parigi sul clima è definito “storico” perché ha rappresentato il culmine di un percorso che, dopo un ventennio di negoziati internazionali non di rado caratterizzati da insuccessi, fallimenti e stalli, ha finalmente prodotto un accordo efficace nel limitare la crescita delle emissioni di gas ad effetto serra. Non più un accordo in stile Protocollo di Kyoto, dove solo alcuni Paesi avevano obblighi di riduzione delle emissioni, ma un accordo globale, che indirizza Paesi sviluppati e Paesi in via di sviluppo verso lo stesso obiettivo: quello di contenere l’aumento della temperatura media globale ben al di sotto di 2 gradi rispetto ai livelli preindustriali, mettendo in essere sforzi per limitare tale aumento ad 1,5 gradi.

Gli obiettivi di riduzione delle emissioni (Nationally Determined Contributions, i contributi nazionali programmati) questa volta sono proposti da ciascun Paese e lasciati alle legislazioni nazionali. È la somma di tali impegni – dichiarati a Parigi, ma soggetti a revisioni quinquennali che ne aumenteranno l’ambizione – a determinare il risultato nella riduzione globale delle emissioni climalteranti. Questo approccio costituisce allo stesso tempo il punto di forza e di debolezza dell’accordo. Da una parte, infatti, un accordo così ampiamente condiviso non si sarebbe potuto raggiungere imponendo ai Paesi obiettivi di mitigazione calati dall’alto; dall’altro, la libertà lasciata ai singoli stati riduce il controllo sull’aumento della temperatura globale.

La somma degli NDCs non è ancora sufficiente a limitare la crescita della temperatura al di sotto dei 2° C rispetto a quella preindustriale. Ulteriori riduzioni delle emissioni saranno necessarie dopo il 2030, altrimenti l’aumento della temperatura a fine secolo sarà più vicina ai 3°C che a quella fissata dall’Accordo di Parigi. Se le emissioni effettivamente si ridurranno in modo rapido e se avremo a disposizione tecnologie efficaci nel rimuovere la CO2 dall’atmosfera su grande scala, allora l’obiettivo del 2°C potrà essere raggiunto. Altrimenti dovremo adattarci ad un clima molto diverso da quello attuale.

Non possiamo dimenticare che l’Accordo di Parigi guarda anche oltre la mitigazione (ovvero, la riduzione delle emissioni), ponendo tra i suoi obiettivi principali anche quello di accrescere la capacità di adattamento agli inevitabili impatti che - anche rispettando il limite dei 2 gradi o addirittura quello del 1,5 gradi – dovremo comunque affrontare. Infine, l’Accordo di Parigi definisce anche i flussi finanziari che saranno necessari per realizzare adeguati interventi, appunto, di adattamento e mitigazione.

Quanto pesa il dietrofront di Trump?

La decisione di Donald Trump di avviare le procedure per ritirare gli Stati Uniti dall’Accordo di Parigi cambia solo in parte le carte in tavola. Formalmente, l’uscita degli Stati Uniti dall’Accordo sarà effettiva solamente il 4 novembre 2020, ovvero un giorno dopo le prossime elezioni presidenziali (per un’analisi delle possibili scorciatoie a disposizione di Trump si visiti climateobserver.org). In questo periodo, gli Stati Uniti potranno non lavorare per rispettare il proprio NDC senza andare incontro ad alcuna sanzione ma, come hanno dimostrato i fatti e le reazioni che hanno seguito l’annuncio, l’azione per il clima nel resto del mondo non rallenterà. La green economy non sarà inoltre un affare estraneo agli USA: azioni a livello subnazionale (Stati, città e mondo dell’impresa) continuano, e potranno almeno in parte compensare il mancato impegno per il clima a livello federale.

Cosa si intende per “finanza climatica”? In che modo può rappresentare uno strumento fondamentale nel raggiungimento dei target ambientali? Come è cambiato il ruolo di banche e investitori in materia di sostenibilità?

Un’economia verde guida l’innovazione e gli investimenti nella direzione dello sviluppo sostenibile e stimola la domanda di servizi e prodotti innovativi e responsabili (anche verso l’ambiente e il clima), esigendo trasparenza dalla parte dell’offerta.

Il mondo della finanza ha un ruolo molto importante nel sostenere gli investimenti necessari a fronteggiare i cambiamenti climatici presenti e futuri. Il concetto di “finanza climatica” comprende gli investimenti in iniziative, progetti, infrastrutture per la mitigazione dei cambiamenti climatici (come investimenti in tecnologie a basso contenuto di carbonio, in energie rinnovabili, in efficienza energetica, …) da un lato e per l’adattamento ai loro impatti dall’altro.

Per implementare i Nationally Determined Contributions (NCDs), presentati nel contesto della Conferenza sul Clima di Parigi, si renderanno necessari 13,5 trilioni di doll. di investimenti in risparmio energetico e in tecnologie a basse emissioni di carbonio nei prossimi 15 anni (circa 900 miliardi all’anno). Questo significa più che raddoppiare gli investimenti in azioni per il clima realizzati finora (fonte: Climate Policy Initiative).

Le istituzioni finanziarie devono necessariamente allinearsi con gli obiettivi climatici di lungo termine definiti a Parigi, e lo stanno già facendo. In vista di una regolamentazione sempre più severa in materia di cambiamento climatico, è negli interessi di investitori ed intermediari finanziari rivedere le proprie strategie disinvestendo dai combustibili fossili, diversificando i propri investimenti, gestendo i rischi ambientali e sociali loro associati e aumentando la trasparenza (per approfondire: videolezioni ICCG su “Finanza per il clima”)

Il sistema ETS mostra la corda da diversi anni. Le modifiche introdotte non riescono a portare le quotazioni a un livello "efficace". Perché l'Europa si ostina a difenderlo?

L’ETS (Emissions Trading Scheme) Europeo, con suoi dodici anni di vita, è il primo e più grande mercato delle emissioni di carbonio e costituisce un’esperienza preziosa per i sistemi di mercato del carbonio che continuano a nascere in tutto il mondo.

Il sistema, disegnato per rispettare gli obiettivi di riduzione delle emissioni europee di gas a effetto serra nel modo più efficiente e meno costoso attraverso meccanismi di mercato, è un progetto di notevole portata. Questo periodo ha perciò rappresentato un’importante esperienza di apprendimento, facendo emergere diversi punti deboli del sistema, a partire dai quali bisogna ridisegnarlo per renderlo più efficace.

Il principale problema è tuttora rappresentato dall’eccesso di offerta di permessi sul mercato che, facendo scendere il prezzo del carbonio, mina l’EU-ETS nella sua ragion d’essere: un prezzo del carbonio basso disincentiva infatti gli investitori a cercare alternative tecnologiche e organizzative a basse emissioni.

Il processo di revisione è in corso: è stata approvata dal Parlamento Europeo lo scorso febbraio la proposta di riforma che avrà effetto dal 2021. Con la riforma aumenterà il ritmo di riduzione dei permessi di emissione, che diminuiranno ad un tasso annuo del 2,2% rispetto all’attuale 1,74%. Un tasso di riduzione lineare delle emissioni più alto avrebbe aumentato l’ambizione e l’efficacia della riforma che, per com’è disegnata ora, non rappresenta ancora un antidoto definitivo e in grado di portare ad un ETS di pieno successo.

Dal 2019 sarà però operativa anche la Market Stability Reserve, un meccanismo creato per regolare il surplus (o l’eventuale scarsità) di permessi sul mercato, con il fine di garantire un costante aumento del prezzo del carbonio, fondamentale per reintrodurre la fiducia degli investitori nel mercato delle emissioni e per orientare le loro scelte nel breve, ma soprattutto nel lungo periodo.

L’EU-ETS può essere considerato una politica ambientale di successo, ma un progetto di questa portata avrà ancora bisogno di essere perfezionato per essere efficace. Legare l’ETS Europeo con altri mercati simili, monitorare in modo flessibile le offerte dei permessi e garantire una coerenza con le altre politiche climatiche europee (in particolare, con le sovvenzioni alle energie rinnovabili) sono probabilmente le azioni più urgenti su cui lavorare.

Non sarebbe più efficace un sistema di "tassazione" della CO2?

La tassazione della CO2 sarebbe più efficace dell’ETS sotto diversi punti di vista, ma non è esente da difficoltà di design e di applicazione. Il difficile consenso da parte della popolazione è uno degli ostacoli che la disincentivano maggiormente. Tuttavia, il programma del neo ministro francese Macron la prevede. Sarà interessante osservare nei prossimi mesi che forma assumerà e che tipo di accettazione riceverà da parte dei francesi.