In attesa che la Corte Internazionale di Giustizia si pronunci rispetto all’istanza presentata dal Sudafrica contro Israele per “atti genocidiari” perpetrati nei confronti del popolo palestinese in “75 anni di apartheid” (nel 1948 nasceva lo Stato di Israele), continua la crisi umanitaria a Gaza. Secondo stime ufficiali, l’offensiva israeliana, terrestre ed aerea, ha mietuto oltre 23.400 vittime palestinesi in poco più di tre mesi, mentre fonti ufficiose azzardano numeri ben più elevati, che si sommano ai 1.200 morti israeliani del 7 ottobre per mano del Movimento per la Resistenza Islamica, meglio noto con l’acronimo di Hamas e vittime di guerra cadute sotto le stesse operazioni israeliane.  

La guerra nella Striscia – scatenata il 7 ottobre 2023 dal brutale massacro contro civili inermi di Hamas che, pur avendo la sua roccaforte a Gaza non rappresenta l’interezza della popolazione palestinese e di cui è assai improbabile che abbia ottenuto l’assenso in una qualche forma di consultazione preventiva, condannandola a subire, invece, una pesantissima ritorsione – ha riportato la “questione palestinese” all’attenzione pubblica e dell’agenda politica internazionale, da cui, come scriveva Claudia De Martino, “sembrava ormai depennata come un rumore sordo di fondo.”

A livello internazionale, le prime ripercussioni si sono avute sui mercati energetici e finanziari. In una regione che produce il 35% delle esportazioni mondiali di petrolio e il 14% di quelle di gas come ricordato dal Fondo Monetario Internazionale, oltre ad essere sede di cruciali arterie commerciali quali lo stretto di Hormuz (prevalentemente sotto il controllo iraniano) e il Canale di Suez, potenziali interruzioni nella produzione di carburanti fossili e nei traffici marittimi hanno ampia eco globale. Dopo l’impennata iniziale del greggio, riportatisi di nuovo sopra i 90 doll/bbl, alla cui produzione, tuttavia, non vi è stata alcuna sospensione, i prezzi dell’oro nero sono rientrati, dimostrandosi relativamente stabili, fino all’ultimo rialzo di oltre il 2% a seguito dell’operazione militare congiunta di USA e Gran Bretagna contro gli Houthi, gruppo ribelle yemenita in guerra contro il governo centrale di Sana’a dal 2014. Da novembre 2023 lo stesso gruppo ha lanciato una campagna di attacchi alle navi mercantili nel Mar Rosso in risposta alla guerra a Gaza. Gli Houthi, infatti, sono parte di una costellazione di vari gruppi sciiti zayditi sostenuti dall’Iran nel cosiddetto “Asse della Resistenza” anti-Israele (e anti-USA) a cui è legato anche Hamas, pur essendo sunnita.

Tale operazione ha ugualmente impattato i prezzi del gas, già più volatili e soggetti ad un ben più cospicuo aumento dallo scoppio del conflitto. Il 9 ottobre, infatti, all’indomani dell’attacco a sorpresa di Hamas che aveva colto impreparate le forze di difesa e di intelligence israeliane, svelandone impietosamente la vulnerabilità e scalfendo così quel mito di invincibilità nonostante l’oggettiva superiorità tecnologica, il governo israeliano, tramite il suo Ministro dell’energia, aveva ordinato la sospensione temporanea delle forniture di gas naturale dal sito offshore di Tamar, situato al largo della costa della città di Ashkelon, appena a nord di Gaza. Lo stop alle attività di questo importante giacimento per il fabbisogno interno israeliano e fonte di approvvigionamento per Egitto e Giordania, ufficialmente imposto per motivi di sicurezza e revocato dopo 5 settimane, aveva lasciato pensare anche ad una forma di pressione sul Cairo e, indirettamente, sull’Europa. Infatti, l’Egitto, il cui volume delle importazioni di gas israeliano si erano ridotte del 20% secondo fonti ufficiali ma anonime citate da Bloomberg, ricorre a Tamar in aggiunta alla produzione nazionale per soddisfare la propria domanda interna e per liquefare ed esportare le eccedenze verso l’Europa. Circa un anno prima, il 15 giugno 2022, Israele, Egitto, ed Unione Europea avevano firmato un memorandum di intesa all’East Mediterranean Gas Forum per consentire una fornitura stabile di gas naturale all’UE, coerentemente con la strategia dell’Unione di diversificazione dell’approvvigionamento energetico ribadita dal piano REPowerEU e volta a ridurre progressivamente la dipendenza dalle forniture di gas russo.

Oltre che sui mercati energetici, il conflitto pesa sulle economie regionali, le cui prospettive di crescita erano già stimate al ribasso. Primo a risentirne il settore turistico, le cui entrate si sono immediatamente contratte, non solo in Israele ma anche nei paesi limitrofi, come il Libano, che sempre più da questa fonte dipendono. Senza contare, inoltre, il “fardello” economico che nuovi, massicci flussi di rifugiati porterebbero al “Paese dei cedri”, come anche a Giordania ed Egitto.

Lo spettro dell’allargamento del conflitto con un potenziale coinvolgimento diretto dell’Iran e del Libano sembra ora drammaticamente delinearsi, sia con il cambio di strategia nella “guerra al terrore” di Israele attraverso una de-escalation militare nell’enclave di Gaza con omicidi mirati ai dirigenti di Hamas come quelli avvenuti in Libano sia con i raid statunitensi e britannici nel Mar Rosso di venerdì 12 gennaio.  E mentre cresce il rischio di nuovi scontri per procura, modalità ben consolidata nella storia della regione, è interessante ricordare un duplice aspetto che riguarda i governi e le società arabe: da un lato, che i paesi arabi e musulmani hanno posizioni contrastanti sulla questione palestinese, come emerso, ancora una volta, dalla mancanza di una posizione comune rispetto alla guerra tra Israele e Hamas al summit di emergenza dell’11 novembre dell’Organizzazione per la Cooperazione Islamica; dall’altra, che il sentimento pro-Palestina delle “piazze arabe” è ancora estremamente forte, a dispetto delle scelte di molti governi.

La guerra a Gaza ha comportato uno stallo nei processi di normalizzazione in corso tra Israele e i Paesi arabi sunniti, noti come “Accordi di Abramo” (profeta sia per Ebraismo che Islam), i quali, a partire da Bahrein ed Emirati, passando poi per Marocco e Sudan, stavano portando ad uno storico rapprochement con l’Arabia Saudita. Tuttavia, nonostante la condanna nei confronti di alcune azioni di Israele, la solidarietà espressa alla popolazione civile palestinese e gli aiuti inviati, nessuno dei paesi degli Accordi di Abramo ha adottato, finora, importanti misure ritorsive contro Israele, lasciando intendere che le relazioni diplomatiche proseguiranno, e con esse il nuovo corso geopolitico. Tali accordi son stati mal digeriti dai cittadini arabi, dopo che, per decenni, i rispettivi governi avevano giocato la “carta palestinese” in chiave populista e anti-imperialista come fonte di legittimazione interna, facendo leva e, al tempo stesso, alimentando i sentimenti anti-israeliani e anti-statunitensi. La riconciliazione con Israele aveva perciò prodotto non poca indignazione sociale, svelando il corto circuito istituzionale tra retorica e prassi.

Recentemente, la clamorosa disfatta elettorale alle legislative 2021 in Marocco del partito islamista di Giustizia e Sviluppo (PJD), da 10 anni a capo del governo dopo le “primavera arabe”, sarebbe stata motivata, secondo alcune interpretazioni, proprio dalla sottoscrizione degli Accordi di Abramo in tandem con altre mal gradite riforme e “tradimenti” del mandato islamista. Sebbene la questione fosse, anche in quel caso, assai più complessa nel suo insieme (tanto più che, appena un anno dopo, con il 31% delle preferenze, proprio il Marocco, insieme al Sudan, era il paese con il più elevato supporto popolare alla normalizzazione), questo elemento è – tra molti altri ancora –  indicativo di uno scollamento tra governi e popolazioni arabe, la cui sensibilità alla questione palestinese è apparsa evidente dalle manifestazioni a sostegno di Gaza. Indipendentemente dalla linea politica ufficiale dei vari paesi, più conciliatoria o intransigente, da Rabat ad Algeri, da Istanbul a Tunisi (dove era stata addirittura avanzata una proposta di legge per criminalizzare i rapporti con Israele), le strade e le piazze arabe si sono riempite di solidarietà verso la Palestina. È assai improbabile che vi saranno rivolte anti-governative d’impatto laddove ha prevalso un approccio pragmatico alla normalizzazione, ma forse molti più cittadini e sudditi arabi riconoscono adesso la strumentalizzazione del mito della solidarietà panaraba verso i “fratelli” palestinesi da parte dei loro governi, indice di come la realpolitik coinvolga tanto l’Est quanto l’Ovest, il Nord quanto il Sud, nel nuovo secolo multipolare e in un Medio Oriente caratterizzato da monarchie ereditarie e autocrazie.