Il mestiere del banchiere centrale è inerentemente complesso. Lo diventa ancor più sotto l’effetto della spettacolarizzazione mediatica cui – nostro malgrado – risponde oggi quell’attività che, un tempo, un certo A. Greenspan definì come quella di cui chi la esercita dovrebbe non parlarne od al massimo farlo tra le righe e con un “farfugliare incoerente”.Ed invece siamo qui – e chi vi scrive fa esercizio di astinenza al riguardo – a sondare ogni pixel delle inesauste attività comunicative multimodali delle schiere di banchieri centrali nostrani, transatlantici e del quadrante oceanico.

Il problema si complica ulteriormente poiché ormai lontano l’orizzonte del tecnicismo da banchiere centrale, la politica monetaria ha acquisito – anche qui, nostro malgrado - un ruolo (molto) ingombrante nel determinare i destini dell’intero quadro macroeconomico occidentale (sebbene la Cina non ci vada coi guanti di velluto). O almeno, questo è quanto gli ultimi quindici anni di storia ci han fatto credere. Ecco perché lo scacchiere su cui il banchiere centrale gioca è diventato multidimensionale, essendovisi sovrapposto anche quello della geo-economia. Viene cioè contaminato – ad esempio - dalle vicende dell’oro nero, a sua volta ,– purtroppo -  al centro di assai complicati e delicati giochi di potere planetari, incendiati dall’invasione russa dell’Ucraina.

E qui siamo al punto: che farcene – oggi – dell’ennesima manipolazione (costrizione della catena di fornitura) che l’OPEC+ (leggasi: Arabia Saudita e Russia) ha messo in scena? Cosa può dirsi dell’ennesimo rincaro (artificiale, ma non per questo meno reale) che il gruppo di autocrazie oligopolistiche ha attuato per proteggere i propri bilanci pubblici o per finanziare l’odiosa invasione armata di uno stato sovrano? Diciamo innanzitutto, e per esser chiari, che la decisione unilaterale di Arabia Saudita e Russia di rinnovare il taglio volontario alle loro esportazioni di greggio avviato in aprile, sino a fine 2023, non ha alcun modo il dimostrabile obiettivo di stabilizzarne il mercato globale. Tutt’altro: proprio nel momento in cui l’OPEC stesso nel suo ultimo report mensile mostra un crescente deficit planetario tra offerta e domanda, ecco che la decisione settembrina della coalizione Riyadh – Mosca di prolungare la compressione della loro offerta appare assai meno ragionevole, salvo che per il caso in cui l’obiettivo non fosse quello di un “quick buck”, di un bottino facile a spese dei consumatori globali. Sospetto questo che ci sentiamo dimostrabilmente di avallare, specie a valle dell’ulteriore provvedimento del Cremlino del 21 Settembre 2023 di arrestare le esportazioni russe di diesel e benzina.

Torniamo, però, ora al nostro banchiere centrale. Tra un’intervista, un convegno, un simposio ed una conferenza stampa, il decisore di Politica Monetaria è pressato a battezzare quale – e per quanto tempo –effetto questa ed altre decine di variabili dispiegheranno sul complessivo quadro macroeconomico. Di più: si chiede ad esso di pre-dire quali comportamenti le proprie condotte di politica monetaria adotteranno in risposta alle evoluzioni – del tutto imprevedibili e financo incomprensibili se non sotto una lente geo-economica – di quadri come quello dipinto al paragrafo precedente.

Dimentichi dei suggerimenti del signor Greenspan, più volte negli anni ribaditi peraltro, i banchieri centrali dicono la loro, lungamente. Il che tipicamente innesca ulteriore volatilità nei mercati finanziari e rende con più difficoltà e con ulteriore ritardo identificabile il nesso causale tra (macro) fenomeno (indipendente) e (macro) variabile (dipendente).

Eppure, nel caso del petrolio, sembrerebbe semplice: un rincaro del barile di greggio, ulteriormente amplificato dalla ormai pluriennale strozzatura alle catene di raffinazione globali ed anch’esse sempre più sotto il tallone di altre geografie dal pedigree specchiato come Cina ed India, dovrebbe tradursi in rampanti spirali inflazionistiche. Strano però – caro Lettore – che sino a prova contraria la più bruciante escalation inflazionistica planetaria dell’ultimo trentennio si sia realizzata in concomitanza, non già alla sola spirale di aumenti del prezzo delle materie prime (soprattutto – ma non solo – energetiche), bensì al diluvio di spesa pubblica che ha messo le ali ad un animale il cui comportamento ben conosciamo quando sovra-stimolato: il consumatore, specie quello statunitense.

Ed eccoci, quindi, arrivati al dunque della questione: senza che il consumatore abbia in tasca abbondanti e crescenti quantità di reddito disponibile e spendibile, il solo aumento – per quanto parabolico – dei prezzi di alcuni fattori produttivi non genera prolungati periodi inflazionistici. L’errore più straordinario di politica monetaria di un’intera generazione, quindi, si è incardinato proprio su questo elemento: la compresenza di un potere di spesa senza precedenti del consumatore (occidentale in generale e statunitense in particolare), irrorato prima, dai poderosi programmi pandemici di aiuto statale e poi, da un roboante mercato del lavoro tramite cui i salari – reali – hanno tenuto testa alle dinamiche dei prezzi, ulteriormente espandendole.

Da qui in avanti, quindi, quello che è ragionevole attendersi – e che la banca centrale che meno ha perduto credibilità negli ultimi due anni (la FED) giustamente ribadisce – è che, in un contesto di lento indebolimento del mercato del lavoro, ci si dovrebbe attendere una meno sostenuta dinamica inflazionistica. Come dire: se i prezzi aumentano, ma ho meno denaro da spendere, l’effetto complessivo sulla persistenza di aumenti dei prezzi stessi cala.

Ecco perché - nonostante le esuberanze geopolitiche dell’OPEC+ che hanno comunque il potere di ferire anche mortalmente la stabilità del ciclo economico occidentale e che pertanto noi castighiamo senza tema – gli istituti centrali, ancora minimamente credibili, pongono un accento più enfatico sul mercato del lavoro rispetto a quello delle materie prime (energetiche). Dalla salute/forza del primo, infatti, dipende la durevolezza dell’effetto (inflattivo) del secondo.

Il tutto – per finire – senza scordarsi della inerente, strutturale natura inflazionistica dell’intero processo della transizione energetica. Ma di questo, abbiamo già detto.