“É una cosa tipicamente norvegese essere buoni”, disse il Primo Ministro Gro Harlem Brundland nel suo discorso alla nazione del 1° gennaio 1992, flirtando insolitamente con il moralismo. Da allora questa frase è stata utilizzata più volte per sottolineare le qualità di questo popolo. Oggi, rivisitiamo l'idea che le future rendite del petrolio e del gas norvegesi, ovvero i profitti in eccesso convertiti in entrate pubbliche, potrebbero essere destinate alla lotta al cambiamento climatico in quei paesi che non sono in grado di raggiungere da soli gli obiettivi fissati dall'accordo di Parigi del 2015. Il che si tradurrebbe in un po' più di soldi   per il mondo, un po' meno per i norvegesi, ma un clima migliore per tutti. Ma perché i norvegesi dovrebbero accettare di ricevere meno entrate petrolifere in futuro?

Quella della gestione petrolifera norvegese dalla sua nascita, avvenuta nei primi anni '60 fino ad oggi, è stata un storia di successo. Il fondo petrolifero, ora chiamato Government Pension Fund Global (GPFG) ne è testimone. All'inizio del 2023, il fondo ammontava a 12,4 trilioni di corone norvegesi (1 milione di dollari per ogni famiglia norvegese di quattro persone) corrispondenti a tre volte il PIL annuale della Norvegia. Un volume tale da renderlo il più grande fondo sovrano del mondo. Per legge, il popolo norvegese è l'indiscutibile proprietario del fondo.

Dal 1969, anno di avvio della produzione petrolifera, la Norvegia ha estratto 29 miliardi di barili di petrolio, contribuendo così alle emissioni globali di CO2. Qualora decidesse di non depositare più nel fondo i proventi derivanti dalla vendita di petrolio e gas, il Parlamento norvegese potrebbe utilizzare le future entrate per aiutare altri paesi a soddisfare più facilmente gli obiettivi ambientali previsti dall'accordo di Parigi e finanziare tecnologie più pulite.

La norma che disciplina il GPFG prevede che lo Stato possa spendere ogni anno il tre percento del valore del fondo, pari al rendimento previsto, per un valore pari a 30.000 dollari per ogni famiglia norvegese di quattro persone. Anche nel caso in cui oggi il fondo petrolifero fosse chiuso, la Norvegia potrà continuare a spendere il rendimento atteso per l'eternità. Ma la domanda è questa: in un mondo che deve affrontare una catastrofe climatica incombente, è ragionevole che tale importo continui ad aumentare?

Da un punto di vista legale, non c'è niente di sbagliato nella rendita economica, o nel superprofitto che la natura ha prodotto e che fa capo a un ristretto gruppo di persone, purché siano i legittimi proprietari decisi dalla legge. Neanche i dittatori e gli oligarchi privano la gente comune della loro percentuale di rendita derivante dalle risorse che appartengono al popolo per legge. Ma da un punto di vista etico, quanto c’è di giusto in questo?

Noi pensiamo che in Norvegia sia giunto il momento di dire basta e permettere alla comunità mondiale di beneficiare del futuro flusso di denaro derivante dallo sfruttamento del petrolio come contributo tangibile per affrontare la sfida del cambiamento climatico. Cambiamento climatico di cui la Norvegia, in quanto importante produttore di petrolio e gas, è in parte responsabile. Altri paesi produttori sarebbero i benvenuti nel seguire questo esempio. Pertanto, le Nazioni Unite potrebbero prendere in considerazione la creazione e l'attuazione di una serie di principi, concordati a livello internazionale, per promuovere tale sviluppo. Dopotutto, è in gioco il futuro del nostro pianeta.

È giunto il momento, pensiamo, di considerare irragionevole l'attuale disposizione e distribuzione delle rendite petrolifere in Norvegia e di fare qualcosa per aiutare a salvare il mondo da una catastrofe climatica. La Norvegia potrebbe continuare a estrarre combustibili fossili e utilizzare il super profitto derivante dalla futura produzione di petrolio e gas per aiutare a finanziare la transizione verde a livello globale piuttosto che per aumentare il PIL nazionale.

In tutto il mondo, la ricchezza petrolifera, che appartiene al popolo, come statuito dai patti internazionali sui diritti umani e talvolta anche da leggi locali, è stata sfruttata per arricchire pochi a spese di molti. Gli autocrati non possono rivendicare ragionevolmente le riserve petrolifere dei loro paesi, soprattutto in considerazione della gestione delle rendite del passato. La Convezione internazionale sui diritti civili e politici (ICCPR) adottata dall'Assemblea generale delle Nazioni Unite nel 1966 e  da 167 paesi,  afferma che "Tutte le persone possono, per i propri fini, disporre liberamente delle proprie ricchezze e risorse naturali". La misura si riferisce alle persone, non agli Stati.

Ispirate da questa disposizione giuridicamente vincolante dell'ICCPR e dalla supervisione congiunta dell'UE sulle risorse di proprietà comune dei paesi membri a partire dalla Comunità del carbone e dell'acciaio, le Nazioni Unite potrebbero prendere in considerazione l'internazionalizzazione selettiva delle riserve petrolifere in tutto il mondo in nome della ragionevolezza, efficienza e giustizia.

Thorvaldur Gylfason, Professor Emeritus of Economics, University of Iceland e Arne Jon Isachsen, Professor Emeritus of Economics, BI Norwegian Business School, Oslo

La traduzione in italiano è stata curata dalla redazione di RiEnergia. La versione inglese di questo articolo è disponibile qui