Forse non i lettori di RiEnergia, ma senz’altro chi da un decennio abbondante ci legge sui social e su Twitter in particolare ci avrà sentiti stigmatizzare in maniera ricorsiva un paio di cose che volentieri riprendiamo in questa prestigiosa sede. La prima è che il denaro ha un costo. La seconda è che i sistemi energetici sono complessi.
Vediamo il primo punto. Gli anni 2010-2020 hanno in effetti fatto di tutto per demolire a colpi di politiche monetarie non convenzionali (quelle cioè che le Banche Centrali attuano al di fuori del loro perimetro tradizionale: definire il costo del denaro a breve termine) un portato che governa un principio tanto semplice quanto ineliminabile: il capitale – scarso per definizione – viene allocato dagli agenti economici che lo detengono in ragione del rendimento e del relativo rischio atteso scaturente da un certo progetto e per dato il costo del denaro stesso. In un sistema finanziario sono due i maggiori “vettori” di allocazione del capitale: da un lato, il “mercato dei capitali”, dall’altro il vettore bancario. Il mercato dei capitali (azioni ed obbligazioni) alloca capitale di rischio (azioni) o di debito (obbligazioni) in base a complicati meccanismi di “costo-opportunità”. In aggiunta a ciò ed in seno a cornici regolamentari molto complesse, il vettore bancario consente a ciascun istituto di credito di identificare alternative di impiego dei mezzi ad esso disponibili tra prenditori che siano meritevoli (in termini di merito di credito appunto) di ricevere finanziamenti (mutui, linee di credito, ecc.). Il “mercato del capitale di debito” e quello bancario differiscono crucialmente per l’aspetto di “sfasamento temporale” tra chi presta e chi riceve il capitale.
In particolare, mentre sul mercato dei capitali tipicamente chi “presta” il denaro sa ex ante a chi lo impresta, a quale rendimento atteso e per quanto tempo, nel sistema bancario le cose funzionano diversamente. Nel più semplice degli universi possibili, infatti, le banche si “approvvigionano” di risorse “custodendo” il denaro di certa clientela (depositanti) e lo impiegano lungo orizzonti temporali e di rischio più elevati allocandolo a cert’altra clientela meritevole di finanziamento. Tra il momento della raccolta (depositi) e quello dell’impiego (prestiti) esiste un consustanziale disallineamento (mismatch) di scadenze, la gestione del quale è da considerarsi come il più intimo business bancario. I depositanti non conoscono ex ante a chi e per quanto il loro denaro sarà imprestato dalla banca che nel durante lo custodisce. Sanno solo che in qualsiasi momento il loro denaro risulta disponibile e prelevabile. Sarà il saggio banchiere quindi a costruire una matrice di raccolta ed impiego che tenga virtuosamente conto delle aspettative di prelievo da parte dei suoi depositanti e del tempo di rientro dei propri impieghi.
Bene: i tumultuosi eventi del marzo 2023 che hanno portato al tappeto nel volgere di poche ore la Silicon Valley Bank e le Signature Bank negli Stati Uniti e che hanno seminato il panico tra decine e decine di altri simili istituti di credito statunitensi è riassunta nelle poche righe precedenti. Il malassortimento tra politiche di impiego delle risorse da parte del (non saggio) banchiere e natura, dimensione e concentrazione dei depositanti (da cui – ricordiamolo – la banca trae finanziamento) rappresenta l’epilogo di una vicenda che in verità si innerva in quella decennale amnesia che ha sinistramente cementato l’idea che il danaro “costa poco o niente”.
Veniamo al secondo punto: i sistemi energetici sono complessi. Se ciò è vero in generale lo è ancor di più nel particulare dell’ultimo decennio. Ciò per due ordini di ragioni: la prima è che la rivoluzione dello shale Oil&Gas statunitense è intimamente collegata al particolarissimo ecosistema economico-finanziario che ha consentito ad un’industria dimostratasi durevolmente non economicamente profittevole di crescere lungo il decennio 2010-2020, esattamente perché risorse finanziarie sovrabbondanti che “cercavano casa” consentivano ad aziende che sarebbero altrimenti fallite di “tirare avanti”.
La seconda è che il riflesso pavloviano dei policymakers sulla (inevitabile) transizione energetica che ci accompagna dal post-Covid e specialmente dal 24 febbraio 2022 ha fatto riversare una quantità di risorse senza precedenti tanto fiscali quanto finanziarie – il cui costo, lo ribadiamo a rischio di risultare noiosi, era prossimo allo zero sino a soli 18 mesi fa – su una pletora di progetti, di soluzioni, di linee di sviluppo tecnologico che avevano senso economico (forse) solo se interpretati in quel regime di perdurante amnesia in cui il denaro - e quindi il capitale – era “a costo zero”.
Mentre il fragoroso collasso del colosso svizzero Credit Suisse va più correttamente interpretato in un’ottica di vera e propria mala gestio sia nell’ambito delle aree di business dell’operatore elvetico che in quelle del risk management vero e proprio, il clamoroso corto-circuito innescato dalla decennale amnesia che il denaro non può per sempre non avere un costo e che i sistemi energetici sono complessi porta alla triste constatazione che alla fine dell’arcobaleno non c’è alcun pentolone d’oro.
Ridisegnare relazioni virtuose tra capitale ed attività d’impresa – specie in sistemi complessi e fragili come quelli energetici - richiede che il perimetro del campo da gioco sia visibilmente tracciato. Le linee laterali del rettangolo d’erba sono quelle disegnate da ben visibili “tassi di interesse” che non consentano a fenomeni tanto indesiderabili quanto frequenti di “Fata Morgana” di mostrarsi come soluzioni percorribili “solo se” il costo del capitale che le finanzia permane in una insostenibile condizione di “costo zero”.
Solo in tale regime il mercato ha buon gioco nel canalizzare mezzi finanziari, materiali e manageriali proprio laddove i principi di economicità e di sostenibilità (tanto ambientale quanto intertemporale) vengono rispettati all’interno di un quadro di regole chiare, semplici e di rapida attuazione definite da un saggio policymaker.