“Cambiamenti di questo tipo non sono mai facili. Molti diranno che dobbiamo fare meno e più lentamente. Ma nella situazione in cui versa il nostro pianeta fare meno significa non fare nulla, e non possiamo permettercelo”. Con queste parole la Presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, il 14 luglio 2021 presentava il pacchetto di proposte Fit for 55. All’interno del provvedimento insieme ai nuovi obiettivi sullo sviluppo delle rinnovabili e quelli per l’efficienza energetica degli edifici è stato inserito, dopo anni di dibattiti e pressioni, anche il nuovo regolamento per decarbonizzare il settore del trasporto leggero – auto e furgoni – con l’obiettivo di azzerare le emissioni dei veicoli nuovi a partire dal 2035. Difatto il regolamento vieta a partire da quella data la vendita di motori benzina e diesel, spianando così la strada all’auto elettrica.

Come la Presidente della Commissione europea aveva previsto in “molti” hanno reagito. Quello che la Commissione si avviava a riformare è, infatti, uno dei settori industriali più grandi del continente – 2,6 milioni di persone impiegate direttamente (8,5% dei lavoratori nell’industria manifatturiera europea), che salgono a 13,8 milioni se si conta anche l’indotto (il 6,1% di chi lavora in Europa), e un fatturato in grado di rappresentare oltre il 7% del PIL dell'UE (secondo i dati della stessa Commissione) –, e per molto tempo considerata “l’industria delle industrie”.

I primi a manifestare la loro insofferenza alla proposta di Bruxelles sono stati, come era prevedibile, i costruttori. Nonostante le case automobilistiche negli ultimi anni abbiano presentato piani di investimento e obiettivi sempre più “elettrificati”, la Vda, l’associazione dell’industria automobilistica tedesca, ha calcolato che ammontano a 220 miliardi di euro gli investimenti previsti dalla sua industria automotive tra il 2022 e il 2026. Acea, l’associazione europea che rappresenta i costruttori, ha definito il piano “irrazionale” chiedendo, invece, che fosse creato il contesto adatto per una più rapida adozione delle motorizzazioni elettriche con un programma di sviluppo e risorse destinate all’installazione di colonnine di ricarica in tutta Europa. Una posizione condivisa con la sua industria complementare, quella della componentistica, che attraverso la sua associazione europea Clepa, fin dalle prime ore dalla pubblicazione della proposta, ha chiesto di salvare gli e-fuels, ovvero i combustibili sintetici, sottolineando che la reale sostenibilità ambientale dell’auto elettrica si possa garantire solo con la sostenibilità ambientale dell’energia con cui ricaricarla. Ha inoltre chiesto a Bruxelles di migliorare il mix energetico europeo prima di intervenire sull’elettrificazione del parco auto.

In maniera altrettanto prevedibile l’opposizione al phase out dei motori endotermici ha trovato una sponda istituzionale soprattutto in quei paesi con una forte vocazione industriale automobilistica, chiamati a tutelare i livelli occupazionali messi a rischio dalla svolta elettrica voluta dalla Commissione. Un’auto elettrica è composta da un numero di componenti inferiore rispetto ad un’auto a combustione interna – questo numero varia dal 10% al 30% in meno a seconda della disponibilità di una batteria “finita” o della necessità di assemblarla – e di conseguenza necessita anche di meno forza lavoro. Uno studio commissionato da Clepa a Pwc pubblicato a novembre 2021 ha stimato una perdita netta di 275.000 posti di lavoro in Europa entro il 2040 con il passaggio tout court all'auto ricaricabile. In base al rapporto, i paesi che perderebbero di più in termini di lavoratori rispetto agli attuali livelli di occupazione sarebbero Germania (83.000) e Italia (59.000), gli stessi paesi che al momento hanno bloccato l’adozione del regolamento da parte del Consiglio europeo proprio nel momento in cui sembrava tutto fatto per il via definitivo allo stop al 2035 ai motori endotermici. “A nostro avviso – si legge nella dichiarazione di voto contrario presentata dall’Italia alla riunione degli rappresentanti permanenti dell’Ue che ha deciso per il rinvio del voto sul nuovo regolamento –, la decarbonizzazione nel settore dell'autotrasporto dovrebbe essere perseguita secondo i principi di una transizione economicamente sostenibile e socialmente equa verso emissioni zero e di neutralità tecnologica”. Oltre alla Bulgaria, che ha deciso di astenersi, anche la Polonia – a differenza di Italia e Germania molto prima della settimana del voto –, ha rifiutato l’impostazione del nuovo regolamento, sostenendo la necessità di incentivi per i costruttori “affinché offrano ai cittadini veicoli a zero emissioni al minor costo possibile”. Varsavia ha evidenziato la necessità di non scaricare i costi dell’elettrificazione della mobilità sugli stessi automobilisti, rifiutando anche la deroga prevista per i costruttori con un volume annuo di produzione limitato – da 1.000 a 10.000 nuove autovetture (ad esempio Ferrari e Lamborghini) o da 1.000 a 22.000 nuovi furgoni – perché “incompatibile con il principio generale secondo cui le emissioni dovrebbero essere ridotte da tutti i settori in modo socialmente equo”.

Il nodo però restano gli efuels. Il via libera ai combustibili sintetici, infatti, permetterebbe di salvare parte dell’industria automobilistica che ruota intorno ai combustibili fossili: gli efuels potrebbero adattarsi ai motori a combustione interna attualmente in commercio e garantire al settore una sopravvivenza post 2035. Il principale detrattore a Bruxelles dei combustibili sintetici è il vicepresidente Franz Timmermans – "non dovremmo usarli per il trasporto su strada in alcun modo o forma" ha dichiarato poche settimane fa nel presentare la misura dopo l’ok del Parlamento europeo – che è attestato su posizioni molto vicine alle istanze dei principali gruppi ambientalisti europei. Un’analoga posizione è, infatti, stata espressa anche dalla ong Transport & Environment che da tempo sostiene l’inefficienza della soluzione presentata dagli efuels.

Dalla Germania nel fine settimana sono arrivati messaggi di distensione tra Berlino e la Commissione che sembra disposta ad allentare la presa sul regolamento. Ursula von der Leyen dopo aver incontrato il cancelliere tedesco Olaf Scholz ha parlato di “dialogo costruttivo”, aggiungendo che c’è “pieno sostegno all'apertura tecnologica” a condizione – ha precisato – che sia “in linea con il nostro obiettivo sul cambiamento climatico”. Scholz ha parlato di “problema risolvibile” e si è detto “molto ottimista”. La Germania ha giustificato la sua frenata con la necessità di avere garanzie sulla clausola di revisione del regolamento per il 2026 – quella in base alla quale si potrebbero rivalutare le richieste di riduzione delle emissioni per i costruttori in base al monitoraggio e alle valutazioni della Commissione sull’evoluzione nei prossimi anni di consumi ed emissioni – che in base al regolamento attuale non è vincolante.

Da come si risolverà la questione del nuovo regolamento europeo dipenderanno infine altri due dossier, tutt’altro che secondari, su cui l’Unione europea e il settore automotive nei prossimi mesi saranno chiamati a discutere: quello sui nuovi standard Euro 7 e quello della riduzione delle emissioni nel settore del trasporto pesante.