La crisi Russia-Ucraina ha amplificato la tendenza, già in atto dalla fine del 2021, dell’aumento dei prezzi delle materie prime, tra cui greggio e gas, ma ha soprattutto reso evidente il reale peso dell’export russo nel settore energetico e il ruolo, da un punto di vista logistico, del Mar Nero quale area nevralgica per la caricazione di materie prime, semi lavorati e prodotti finiti non solo di origine russa.

La criticità delle ripercussioni sulla catena di approvvigionamento è innegabile, anche se occorre rilevare che il sistema di raffinazione italiano, secondo solo alla Germania fra quelli europei, oggi è in grado di processare greggi provenienti da tutto il mondo e, quindi, sostenere la crisi attuale per il fabbisogno di domanda interna.

La posizione dell’Italia al centro del Mediterraneo, e in modo particolare quella della Sicilia, rappresenta un notevole punto di forza per la logistica dell’approvvigionamento del greggio: rispetto alle raffinerie situate nel Nord e Centro Europa, la diversificazione della materia prima è garantita a costi di trasporto relativamente contenuti grazie alle numerose rotte che transitano, appunto, nel Mare Nostrum (con provenienza da Medio Oriente, Nord Africa, Mar Nero).

Allo stesso tempo, la posizione risulta strategica anche per l’accesso diretto dei prodotti finiti nei mercati emergenti del Nord Africa con domande interne sempre crescenti e capacità di raffinazione ancora non adeguata alla piena sufficienza, soprattutto per le cosiddette specialties (lubrificanti, bitumi, semilavorati per la chimica).

Un sistema quindi flessibile, quello della raffinazione, che conta ben undici raffinerie e due bioraffinerie, quasi tutte costiere, con la possibilità di ricevere e spedire da/in ogni parte del mondo mediante navi cisterna a differenza del gas che oggi (purtroppo) viaggia fondamentalmente via pipelines o attraverso i 3 rigassificatori (in attesa della realizzazione dei nuovi impianti recentemente prevista a seguito della crisi Russia- Ucraina).

Un sistema strategico che ha sempre garantito la sicurezza energetica dei trasporti (e non solo) grazie ad una fortissima capacità di resilienza basata su professionalità, qualità del lavoro, sistemi di gestione e sostenibilità dei processi; una resilienza messa a dura prova da più di 70 anni, ma dimostratasi all’altezza di sfide come la pandemia da virus SARS-COV-2 e la recente crisi Russia-Ucraina, garantendo sempre la sicurezza degli approvvigionamenti.   

Una strategicità che deve essere valorizzata anche all’interno della transizione energetica, dove la raffinazione può e deve giocare un ruolo attivo.

Il processo di decarbonizzazione al 2050, con il primo obiettivo sfidante del Fit for 55 al 2030, deve essere intrapreso assicurando una neutralità tecnologica che consenta a tutte le tecnologie disponibili di essere competitive. Ciò deve avvenire all’interno di valutazioni tecniche che includano l’intero ciclo di vita (Life Cycle Analysis), in uno scenario che deve assicurare il passaggio degli attuali 34 MTep di fonti fossili nei trasporti ai 22 MTep al 2030.

Numeri che non possono essere raggiunti soltanto tramite la strada dell’elettrificazione, in quanto significherebbe avere nel 2030 più di 8 milioni di veicoli elettrici, ovvero una percentuale pari al 90% dei veicoli che saranno immatricolati a partire dal 2023.

Traguardi, invece, che possono e devono essere raggiunti mediante la valorizzazione del settore della raffinazione con la riduzione di emissioni di CO2 nella produzione dei combustibili fossili tradizionali (al 2030 ancora al 66% nei trasporti su gomma in Italia-stime Confindustria), attraverso progetti quali utilizzo di idrogeno verde/blu in luogo dell’attuale grigio da fossile o progetti di circolarità e aumento dell’efficienza dei processi produttivi. 

Tali traguardi possono essere raggiunti anche tramite la graduale sostituzione dei combustibili fossili attuali con i cosiddetti Low Carbon Liquid Fuels ovvero con combustibili liquidi a basso tenore di carbonio ottenuti all’interno delle raffinerie da processi che utilizzano rifiuti o sintesi della CO2 catturata e con idrogeno verde.

Questo percorso, a mio avviso l’unico realizzabile per una decarbonizzazione concreta ed attuabile nei tempi prefissati, deve presupporre un cambio di paradigma del legislatore europeo volto a riconoscere la strategicità del settore. Per questo si dovrebbero  garantire certezze normative per gli investitori e una visione per il motore a combustione interna oltre il 2040, nonché offrire meccanismi di protezione per gli impianti virtuosi quali quello al vaglio attuale del CBAM (Carbon Border Adjustment Mechanism); infine, servono supporti concreti oltre a quelli previsti per la produzione di idrogeno verde per gli hard to abate, ad oggi le uniche misure presenti per il settore nel PNRR.

Solo con una visione olistica eviteremo di disperdere un patrimonio che costituisce da sempre un valore aggiunto per il sistema Paese, insieme alla filiera dell’automotive e della logistica, e che è pronto a fare la sua parte per l’enorme sfida posta dalla transizione energetica, oggi non più evitabile per la tutela delle prossime generazioni.